Ogni settimana una poetessa, un poeta, un profilo, una citazione sul suo intendere il modo di costruire le parole, la sua poesia.

Piero Bigonciari

Nato a Navacchio in provincia di Pisa, laureatosi con Attilio Momigliano a Firenze nel 1936 con una tesi su Leopardi, ha fatto parte con Mario Luzi e Oreste Macri del gruppo dei poeti ermetici fiorentini. Protagonista della fervida stagione degli anni ’30 legata intorno a “Campo di Marte” e a “Letteratura” ha insegnato all‘Università di Firenze Letteratura Italiana moderna e contemporanea. La sua ultima antologia “Dove finiscono le tracce” è del 1996. Aveva fondato e diretto dal 1977 la rivista “Paradigma”. Si è spento a Firenze nel 1997. La Biblioteca San Giorgio del Comune di Pistoia ha costituito il Fondo Piero Bigongiari che contiene una grande parte delle carte e della sua biblioteca, mentre la Cassa di Risparmio di Pistoia conserva la sua importante collezione di quadri del Seicento fiorentino.

Loris Jacin

“Se il tempo cova le passioni, e quasi dà loro forma, anche le estingue. Dunque bisogna che le passioni, oltre che “descrivere” il tempo, come l’oggetto formato descrive lo stampo in cui il fonditore l’ha colato come ancora materia prima incandescente, anche posseggano una materia ch’io vorrei chiamare l’infinito possibile del tempo. E’ la natura delle passioni, la natura dell’essere: una natura oggettiva, di cui il poeta non si appropria, di cui, bensì meglio diremmo, il poeta si espropria attraverso la poesia…….uomo destruens  insieme ed instruens, nella velocità dei raccordi ritroverà costui il profondo carattere della parola che appunto deve, per convincere, soprattutto significare”.

Tra la legge e la leggenda

Amo perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,

per lasciare una traccia a chi m’insegue,

forse perché amo farmi là raggiungere

dove non sono, mentre guardo il mare

che insinua tra le sue macerie il grido

del gabbiano e un nido tra la ruggine

perduto che galleggia tra le schegge,

al contrario del gran depistatore,

perché so che è difficile seguire

chi, indeciso sulla propria meta,

ma forse proprio in essa pesticciando,

si distrae dietro un viso, si nasconde

dietro il dito che indica le onde

che asciugano e bagnano la riva

del paese natale, la deriva

della luce che liquida ne assale

le sponde e nella mente le ravviva.

Amo confondere il cricchio del tarlo

a un andante di Mozart…, mescolare

il passo del viandante per la via

con quello di chi risale le scale

a semicerchio della nostalgia.

Amo dimenticare il profumo della cedrina

su quello della tua pelle. Del tutto

ricordare la parte più obliata,

del frutto il seme ch’entro sé difende

la sua amarezza in duro tegumento.

Ma se mento, non mento che a me stesso

per dirti la verità che nello stesso

errore è celata, difesa, abbandonata

a crescere in se stessa, nelle proprie

contraddizioni elementari – è lì

che ogni due si unifica, nei suoi

seminali abbandoni.

Amo guardarti

mentre riveli in te una dolcezza

che è quella della fata che nascosta

tra gli alberi occhieggia che nessuno

la segua andando verso il suo tugurio

arredato come una reggia se tu

ne precorri l’augurio coi tuoi occhi,

scheggia impazzita tra gli altri balocchi

del destino che l’uomo chiama vita.

Cammino dietro a poche cose, quelle

meno necessarie, le più volatili,

le meno rare. Forse in mano ad esse

è il codice per leggere il messaggio

che la legge ha lasciato sul tuo tavolo,

semiaperto, semicancellato,

fra terribilità e dolcezza.

Ma se tengo le mani ad un tempo

sui due telai, è che amo riprendere

dal secondo la tela che Penelope

sta sfacendo: è solo con quel filo

– altro non ne ho: l’aspo ne fu rapito –

che sull’altro ritesso la leggenda.

Tu che la leggi strappane la benda

dei segni che l’accertano o la mettono

in forse, perché, vedi, sotto sanguina.

(Poesie)

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