Lucida analisi di tutte le responsabilità degli Stati Uniti e dei Paesi alleati a circa tre mesi dalla nuova crisi in Afghanistan
Come ha scritto Tony Blair, il leader che ha sottoscritto nel 2003 la guerra di Georges W. Bush all’Iraq: “Il ritiro americano dall’Afghanistan è tragico, pericoloso e non necessario. Non avevamo bisogno di farlo. Abbiamo scelto di farlo”. Ci si può domandare come gli Stati Uniti, e con loro l’Occidente, siano arrivati sin qui. Già molti anni fa il ministro degli Esteri francese di Georges Pompidou, Hubert Védrine, parlava in modo lapidario degli Stati Uniti come di “una iperpotenza incapace di percepire la complessità culturale del mondo”. In fondo il declino dell’iperpotenza era cominciato trent’anni prima, in Arabia Saudita, all’epoca della prima guerra del Golfo condotta da Bush padre nell’interesse delle “big oil” americane insofferenti di immaginare l’Iraq dopo la conquista del Kuwait divenire il più grande produttore mondiale in seno all’OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, ndr).
Dopo i fatti di guerra, all’inizio del 1991, un contingente militare americano di 15 000 uomini era stato stanziato in Arabia Saudita. Si poteva scegliere il Kuwait appena liberato, o il Qatar, dove sono adesso. No, si era scelto il Paese dei luoghi santi di Mecca e Medina, dei luoghi haram vietati per gli stessi musulmani se armati di un semplice coltellino. I militari americani non erano musulmani, ma cristiani, ebrei, atei armati sino ai denti. Si trattava di un immenso sacrilegio contro il quale quasi subito avevano schiumato le moschee saudite. Di questo odio antiamericano si era fatto interprete l’eroe della lotta antisovietica Osama Bin Laden, al lato sino al 1989 dei mujaheddin afghani “combattenti della libertà”, e ne era risultato come risposta politica l’attacco alle Twin Towers di New York per mano quasi esclusivamente saudita. Ma Bin Laden era rifugiato in Afghanistan e i talebani, prima tollerati da Bill Clinton come futuri custodi del gasdotto TAPI, si rifiutavano di consegnarlo. Il formidabile complesso militar-industriale americano veniva allora sollecitato per la vendetta in Afghanistan e dal 7 ottobre 2001 cominciavano i bombardamenti a tappeto sul Paese che solo Gino Strada con la sua Emergency già presente a Kabul aveva avuto il coraggio di denunziare. Ma una volta padroni del terreno, gli americani si erano disinteressati totalmente dei talebani, occupati come erano a perseguire la rete di Al-Qaida.
I talebani erano rientrati abbastanza tranquillamente in Pakistan (il mollah Omar in motocicletta da Kandahar) nei santuari pakistani, pronti a riprendere, in ogni momento dal 2007, dopo un periodo di riorganizzazione, il controllo del Paese, con la evidente complicità del governo pakistano pronto ad ospitare a Quetta il CdA: la shura talebana. Mentre l’America di Bush si limitava a congratularsi con il generale Powell per aver preso a bordo il presidente pakistano Musharraf con 9 miliardi di dollari americani. Non per caso lo stesso Bin Laden, al momento della sua uccisione nel 2011, viveva tranquillo in Pakistan. Ma anche dopo il 2011 e l’eliminazione di Bin Laden, gli Americani e alleati NATO, fra cui l’Italia, continuavano a restare in Afghanistan.
Una bolla democratica veniva formata nelle principali città dove esclusivamente grazie all’aiuto internazionale viveva sotto vuoto spinto l’Afghanistan di nostro gradimento, democratico, aperto all’emancipazione femminile, mentre la stampa internazionale embedded alimentata dalle fake-news dei generali americani, ora scoperchiate dagli Afghanistan Papers, lodava i grandi successi dell’operazione militare ISAF (acronimo inglese di Forza Internazionale di Assistenza alla Sicurezza, ndr). Nel frattempo nelle campagne afghane nulla era cambiato. I talebani dispensavano la giustizia, amministravano i villaggi della maggioranza pashtun del Paese dipingendo gli amministratori di Kabul come corrotti servi degli stranieri. Dei fiumi di dollari americani, fino a 3 000 miliardi dispensati ai produttori di materiale militare, agli stessi militari, appaltatori di contratti, al governo afghano, nelle povere campagne afghane non si vedeva nemmeno l’ombra. I media occidentali vantavano i cento progressi del Paese grazie alla presenza occidentale. Ma nella realtà tutto restava fuori posto: ci si era occupati esclusivamente di Al-Qaida e non dei talebani, si era accentrato tutto intorno a Kabul e alla sua corrotta presidenza, si era addestrato un esercito e una polizia che erano astrattamente afghani quando l’Afghanistan era un Paese multietnico che meritava milizie addestrate tagike, turkmene, uzbeke, hazara, per limitare lo strapotere pashtun.
Poi di punto in bianco l’esercito più potente del mondo aveva lasciato alla chetichella la base aerea di Bagram senza avere neppure il coraggio di avvertire preventivamente gli ufficiali afghani. Lasciandosi dietro una parte del popolo afghano, la parte più urbana ed evoluta del Paese, che aveva per vent’anni creduto alle loro promesse. Dopo arabi e kurdi, l’Occidente tradiva anche gli afghani. Tradiva un Paese che, se invece del complesso internazionale militar-industriale avesse veramente ricevuto quei soldi, sarebbe oggi, come scriveva Gino Strada nel suo testamento, una grande Svizzera. Con la polvere dell’Afghanistan l’America si portava dietro anche il tradimento di un popolo, 240 000 vittime afghane e 3 000 americani ancora da evacuare. Chapeau, Mr. Biden! Per la maniera in cui concretizza il “manifest destiny” che il suo Paese si è autoassegnato. E complimenti anche ai fedeli alleati europei tenuti del resto nella più alta considerazio-ne, come prova lo scippo alla Francia da parte del cerchio anglosassone USA-AUSTRALIA-GB (intesa anti-cinese dell’AUKUS) anche delle commesse militari.
Carlo degli Abbati