Il Festival di Sanremo ha portato a casa anche la quarta serata, negli standard di tempi biblici ai quali siamo ormai abituati e che non lasciano ben sperare per la finale di stasera (anche se Amadeus ha promesso in conferenza stampa che il vincitore verrà proclamato entro l’una e trenta!).
Gaudiano, con Polvere da Sparo, ha vinto la sezione delle nuove proposte. Al secondo posto Regina di Davide Shorty che però si è aggiudicato il premio Lucio Dalla.
Per i big ha votato la giuria della Sala Stampa che ha portato sul podio al terzo posto Willie Peyote Mai dire mai, al secondo Maneskin con Zitti e Buoni e al primo posto Colapesce e Dimartino con Musica leggerissima.
A questo punto la somma dei voti delle altre tre serate vede questa classifica generale: Ermal Meta, Willie Peyote. Arisa, Annalisa Maneskin, Irama, La Rappresentante di Lista, Colapesce e Dimartino, Malika Ayane, Noemi, Lo Stato Sociale, Orietta Berti, Extraliscio, Maz Gazzè, Fulminacci, Gaia, Francesca Michielin e Fedez, Madame, Fasma, Ghemon, Francesco Renga, Coma_Cose, Gio Evan, Bugo, Random, Aiello.
Oltre la gara canora, che nulla ha aggiunto a quanto già visto nelle puntate precedenti, le donne sul palco sono state protagoniste: Alessandra Amoroso e Matilde Gioli, hanno portato un monologo sui lavoratori dello spettacolo per chiedere diritti che non siano un colpo di fortuna ma un valore garantito, sulla note di Una notte in Italia di Ivano Fossati.
Protagonista Barbara Palombelli, presentatrice per una sera, rubata all’intrattenimento e alla politica, con il pasciapassare delle reti Mediaset. Il mezzo televisivo lo conosce e si vede. Ma quando si cimenta in un monologo Palombelli-centrico sull’evoluzione del mondo, raccontata dalla sua personale esperienza di figlia ribelle, studentessa modello e lavoratrice indefessa, incastrata tra le pieghe delle canzoni del Festival, non solo non ha suscita alcuna emozione per la sua narrazione monocorde, ma presta il fianco anche a critiche feroci, ad esempio per come sceglie di ricordare Luigi Tenco, lasciando trasparire una possibile roulette russa come gioco finalizzato all’eccitazione artistica.
Ma siccome sul palco dell’Ariston il peggio non è mai morto, la palma (senza leoncino) della peggiore la assegniamo volentieri a Beatrice Venezi, direttrice d’orchestra che ha pubblicamente chiesto di chiamarla direttore.
Cara Beatrice, questa sua specifica in prima serata non ci è piaciuta affatto. Ci dovrebbe spiegare perché professioni più umili come operaia, lavandaia, parrucchiera, fornaia, lattaia eccetera eccetera possono essere declinate al femminile – e per fortuna! – mentre una direttrice d’orchestra si deve chiamare direttore, in barba a tante battaglie delle donne che ancora lottano per la parità di diritti e non certo solo a livello linguistico.
Direttrice non le piace? Perché non ama la rima baciata con Beatrice?
O, ben più grave, è di quella schiera di cultori della professione per cui declinare al femminile è riduttivo?
Quante battaglie sprecate se questo è il sentire di una donna intelligente come lei è… Se, invece, si aggrappa a quella parte di cultura linguistica italiana per la quale il termine “direttrice” è un po’ troppo legato in maniera esclusiva al mondo della scuola, le riportiamo una relazione dell’Accademia della Crusca secondo cui “uno sguardo alla storia del termine direttrice ci rivela che esso veniva usato tra Otto e Novecento per indicare funzioni dirigenziali non esclusivamente scolastiche”. Tuttavia, se avesse ancora problemi di identità linguistica, possiamo chiamarla direttora, che a dispetto di ogni logica sintattica, si colora di una declinazione al femminile che il mondo delle donne merita… a tutti i livelli.
Da Sanremo è tutto: ci pensi, direttora!
Gilda Luzzi