Ospite di Cooperation Nord Sud per la conferenza Migrations: myth versus reality, la giornalista italiana che da anni si occupa di esteri, racconta a PassaParola il suo punto di vista sulle migrazioni, sul ruolo del giornalista e la stampa italiana.
Appuntamento via zoom* oggi alle 19 sulla piattaforma zoom.
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Com’è nata la tua passione per gli esteri?
E’ nata da mio padre, un viaggiatore, e mi ha spinto a farmi delle domande e a visualizzare – essendo lui un appassionato di fotografia – a vedere le cose, ad essere nei luoghi e camminarci. Poi il lavoro mi ha portato a visitare paesi e situazioni lontane da me e mi ha portato a farmi delle domande non solo su quello che mi succedeva intorno ma anche sul modo in cui io, giornalista, avevo di raccontarlo. E ho pensato che dovessi farmi delle domande nuove e soprattutto spendere molto più tempo nei luoghi visitati.
Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Tunisia, Egitto: cosa provi e cosa ti spinge ad andare là dove la terra brucia?
Le domande a cui non riesco dare risposta. Nel tempo ho capito che per me il segreto della nostra professione sia non tanto riuscire a trovare delle risposte ma riuscire a trovare delle nuove domande. Quando è iniziata la guerra a Mosul per liberare la città irachena dai miliziani del gruppo Stato Islamico, mi sono chiesta da che cosa fosse composto il consenso che avevano avuto, da che cosa fosse composta quell’atroce, brutale violenza. E cioè l’idea di cercare, nel racconto dei Paesi che visitiamo, non tanto le conferme alle nostre tesi, ma i punti oscuri, quindi incontrare un sostenitore dello Stato islamico o un trafficante in Libia e chiedermi e chiedere loro le cose che non ho capito e cioè comprendere quella brutalità per poterla raccontare meglio.
Alla luce della tua conferenza dell’11 dicembre, perché, secondo te, le migrazioni in Italia suscitano così tanto odio?
Io credo che più che odio suscitino tifoseria. E’ il grande problema di come si crea l’opinione pubblica, di come si creano le opinioni delle persone. Il modo in cui raccontiamo le cose – parlo di narratori, giornalisti, cronisti, scrittori, documentaristi – determina il modo di pensare dei nostri lettori. Fa la differenza tra fare il tifo, decidere da quale parte della curva dello stadio stare, e avere un’idea strutturata e basata su dati e statistiche. Dobbiamo rendere i numeri comprensibili, vicini, le storie di oggi paragonabili con il passato e agevoli per le previsioni che facciamo del futuro. Dobbiamo mostrare in cosa quello che viviamo oggi è simile a quello che abbiamo già vissuto in passato, anche nel passato recente. Partendo per per esempio dalla lingua da cui veniamo, una lingua, quella latina, che ci racconta che dalla stessa radice etimologica, hos, nasca l’hospes e l’hostis, l’ospite e il nemico.
Nell’intervista a Futura.news intitolata “Da grande voglio fare la reporter” hai detto “Non siamo i protagonisti delle storie che raccontiamo, prestiamo solo gli occhi e la penna”, quanto è difficile per un giornalista raccontare per testimoniare senza giudicare? Ti capita di diventare attivista per rivendicare i diritti delle persone che intervisti?
Parto da questa seconda domanda e la risposta è no. Credo che in questo momento in cui c’è veramente molta confusione tra ruoli, la credibilità di un giornalista risieda principalmente nella pulizia del suo sguardo, nella riconoscibilità del suo ruolo. Noi non siamo attivisti. Indipendentemente da come la pensiamo nel buio della nostra stanza; ognuno di noi ha evidentemente delle idee e delle posizione politiche, un’etica e una morale.
Ma quando siamo sul campo, quando siamo sulla nave di un’ONG, quando lavoriamo in scenari di guerra insieme alle organizzazioni umanitarie o con un’agenzia delle Nazioni Unite, noi siamo dei cronisti e noi dobbiamo raccontare quello che vediamo perché quello che ci deve ispirare è essere letti anche e soprattutto da chi non la pensa come noi. E’ per chi non la pensa come noi noi dobbiamo essere doppiamente credibili. E’ difficile raccontare senza giudicare. E’ difficilissimo. Mi è capitato di giudicare e di pentirmene. Per cui non mi sento esente da questo rimprovero perché è un rimprovero che prima di fare agli altri faccio a me stessa.
A volte cediamo a un cliché e ce ne rendiamo conto dopo, tardi e quindi l’impegno deve essere riconoscere quali sono i segnali di un possibile cedimento. Faccio un esempio : a Kabul, in Afghanistan nell’ospedale di Emergency, una volta il medico mi disse che quando mi avvicinavo alla vittima di un attentato non dovevo chiedere a lui o lei “sei vittima di un attentato dei terroristi talebani ?” perché quella persona poteva essere un talebano.
Ecco, questo esempio semplicissimo mi ha fatto capire quanto a volte per noi sia automatico spacchettare o impacchettare o ingabbiare dei fenomeni in una griglia lessicale che non li contiene.
Nell’intervista a ilLibraio.it, che racconta la genesi di “Porti ciascuno la sua colpa. Cronache dalle guerre dei nostri tempi” (Laterza 2019) hai detto:
“Visto che siamo noi giornalisti a creare parte dell’immaginario e dell’opinione pubblica, dobbiamo essere testimoni responsabili”. Tu che lavori sia con le testate estere che italiane, qual è la differenza nella parola responsabilità tra il giornalismo estero e quello italiano ?
Molto dipende dalla fortuna, dall’incontro con un direttore o un capo-redattore che condivida con te uno sguardo sul mondo. Certamente l’Italia è un Paese in cui si fatica moltissimo e si fatica sempre di più a trovare spazio per un racconto in generale sugli esteri e in particolare su esteri che prevedano un approfondimento. E poi c’è un tema, ad esempio., nei settimanali italiani rispetto ai settimanali esteri, che non ci sono o ce ne sono poche persone addette al fact checking, perché chiaramente quando tu sei fuori e devi intervistare, tornare nel posto in cui dormi, tradurre, scrivere, trovare le informazioni, fare una doppia verifica, se c’è qualcuno in redazione che, insieme a te, verifica delle fonti o dei dati o delle statistiche o dei numeri, questo è chiaramente un aiuto per chi è sul campo e una forma di rispetto per il lettore.
Ma credo che in Italia ci sia una generazione di giovani giornalisti, sia staff dei giornali, sia freelance mossa da una sincera, vitale passione per questa professione e che in quella passione e in quello sguardo risieda il futuro.
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Intervista raccolta da Paola Cairo
Chi è Francesca Mannocchi?
Giornalista freelance, si occupa di migrazioni e conflitti e collabora con numerose testate italiane e internazionali (L’Espresso, Stern, Al Jazeera English, The Guardian, The Observer). Ha realizzato reportage in Siria, Iraq, Palestina, Libia, Libano, Afghanistan, Egitto, Turchia. Francesca Mannocchi ha ricevuto il Premiolino per il giornalismo nel 2016. Ha vinto il Premio Giustolisi con l’inchiesta Missione impossibile (LA7) sul traffico di migranti e sulle carceri libiche. Nel 2018 il documentario diretto con il fotografo Alessio Romenzi è stato presentato alla 75° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Venezia. Il suo primo libro è Io Khaled vendo uomini e sono innocente (2019, Einaudi). (Fonte: Festival del giornalismo)
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