Questa emergenza non ha cambiato solo la nostra vita, ma anche il nostro linguaggio. Fra anglicismi, parole (ri)scoperte e lemmi che un tempo usavamo per ben altre ragioni

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Doveva essere poco più di un’influenza. E, nel pieno rispetto delle previsioni, una grande influenza c’è stata: nelle case, nelle città, sulle strade, nella natura, dentro e fuori di noi. C’è stato, e c’è ancora, un virus “sanitario” che ha cambiato gli ospedali, scombinato i reparti, stravolto le terapie. Un virus che è riuscito perfino a modificare il modo di andarsene all’altro mondo, senza il conforto di nessuno, così come ha impedito a familiari ed amici di accompagnare i propri morti solitari nell’ultimo saluto. C’è stato, e c’è ancora, un virus linguistico e sociale, che ha mutato il nostro approccio al mondo e introdotto nuove parole di cui, nell’era del pre-covidico, ignoravamo l’esistenza. Senza scomodare l’Accademia della Crusca (che tuttavia potrebbe venirci in soccorso vista la penuria di farina bianca sugli scaffali dei supermercati…) cerchiamo di capire come l’epidemia si è diffusa anche nel nostro lessico quotidiano.

Il lemma zero, che ha preceduto di molto il paziente con lo stesso numero, è stato Coronavirus e ha cominciato a circolare già da fine gennaio. Raccontava di un problema lontano, di natura esotica, che stava interessando persone tanto distanti da noi verso le quali, inizialmente, siamo riusciti a dissotterrare il nostro, mai del tutto sopito, senso di intolleranza. Poi, quando il virus biologico, subito dopo il Festival di Sanremo, ha iniziato a “far rumore” anche in Italia, insieme al paziente zero, individuato a Codogno, abbiamo dovuto familiarizzare con termini “perfezionati” ad hoc come focolaio, tampone, asintomatico, intubato, che presto avrebbero monopolizzato i nostri discorsi. Con il crescere dell’emergenza, parole come autocertificazione e DCPM hanno abbandonato i faldoni impolverati della burocrazia e hanno invaso le nostre stampanti. Il virus è stato velocissimo e noi, cercando di essere altrettanto rapidi nel parlarne, abbiamo iniziato a usare una sigla per identificarlo: Covid-19.

Questo novello e sconosciuto ri-scrittore di civiltà “antiche” ci ha imposto dapprima il distanziamento sociale (niente abbracci, niente strette di mano e distanza di almeno un metro fra le persone), la quarantena per chi poteva essere stato contagiato, le zone rosse (fermi tutti!) dove il rischio era più alto. Poi, quando virologi, immunologi, pneumologi, infettivologi si sono resi conto che non sarebbe bastato lavarsi assiduamente le mani per “scansare” il virus, si è decretato il lockdown, anglicismo che significa chiusura totale del Paese.

covid

Da quel momento (era l’11 marzo in Italia), mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità parlava per la prima volta di pandemia, abbiamo iniziato ad “avere confidenza” con vocaboli quali saturazione (che misura la quantità di ossigeno nel sistema circolatorio e non il disgusto da affaticamento lavorativo), ossigenazione del sangue e non dello spirito, il picco del contagio e non più il cucuzzolo di montagna, i ventilatori polmonari non più strumenti per rinfrescare l’aria, il bollettino che registra i deceduti e i contagiati di ogni giorno e non più il meteo della settimana.

E mentre nelle conversazioni e nei gesti scomparivano parole e atti mai abusati come abbracci, baci, carezze e coccole, la nostra familiarità con il lessico medico è diventata inversamente proporzionale alla disponibilità di libertà personali elementari: scuole chiuse, chiese e altri centri di culto chiusi, uffici chiusi, negozi chiusi, musei mostre e librerie chiuse, manifestazioni sportive musicali e culturali annullate, attività fisica azzerata.

mascher

Mascherine e guanti diventano così accessori obbligatori per uscire solo per comprovate necessità o per fare la fila (non, come solito, alla posta, ma al supermercato) dove, per la ricerca del lievito perduto, l’ingresso è stato contingentato per evitare assembramenti. Chiusi anche i rapporti interpersonali con parenti e amici almeno fino a quando, con l’inizio della Fase 2, il premier Conte “ci ha consentito” di andare a far visita ai congiunti (parenti entro il 6° grado) e agli affetti stabili che, però, attenzione, non sono gli amici. Per loro ci sarà tempo… perché in fondo, si sa, loro saranno ancora lì ad aspettarci quando, finalmente, tutto questo tsunami sarà finito!

Gilda Luzzi

 

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