Possiamo tradurlo come “spingere qualcuno a vergognarsi del proprio corpo”. È un fenomeno dai risvolti sempre più inquietanti, contro cui la legge comincia solo ora a fare qualcosa

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Uno degli ultimi casi che ha fatto più scalpore in Italia è stato sicuramente quello della giornalista Giovanna Botteri, presa di mira per l’abbigliamento e l’acconciatura inappropriati secondo gli hater (persone che denigrano sui social, ndr). L’aspetto prende così il sopravvento sulla sostanza e sull’esperienza decennale della giornalista. In un mondo dove la bellezza è d’obbligo, la donna di qualsiasi fascia d’età che non rispetti questi diktat (imposti da social network e dalla moda) viene sottoposta a critiche feroci sul proprio corpo. Troppo magro o troppo grasso poco importa: tutto può e deve essere fortemente e crudelmente criticato. Qui il confine tra offesa e bullismo diventa labile, quasi impercettibile.

Far provare vergogna a qualcuno del proprio corpo con insulti di varia natura è una forma di violenza, spesso di donne contro donne, che può lasciare cicatrici molto gravi. Insomma, la donna vive il doppio peccato originale, ma sembra che quello più grave, ora nel 2020, sia legato all’apparenza. Secondo un recente sondaggio di gov.com, circa un terzo delle persone in Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Norvegia, Svezia e Spagna ha già provato questa esperienza sulla propria pelle.

Nella maggior parte dei casi essere vittima di body shaming non è un caso isolato: tra gli europei che hanno subito delle discriminazioni, il 36% ne è stato vittima più di dieci volte. In risposta a questo fenomeno sociale così diffuso è entrato in scena il movimento Body Positive, il contrapposto positivo che cerca di bilanciare gli effetti dannosi del body shaming, dedicato a chi ha un corpo che non rientra nei canoni predefiniti della “normalità”. La “body positivity” è un movimento sociale che si basa sull’idea secondo cui ognuno dovrebbe accettare il proprio corpo così com’è (www.thebodypositive.org).

Il movimento ha inciso anche nelle campagne pubblicitarie legate alla cosmesi e alla moda, dove sempre più spesso compaiono donne con curve o attributi fisici differenti e non canonici. D’altra parte, in molti Paesi si è cercato di arginare il fenomeno sostenendo politiche contro ogni tipo di discriminazione anche rispetto all’aspetto fisico. Il primo Paese a muoversi in questo senso è stato la Gran Bretagna. Già nel 2016 il sindaco di Londra proibì l’affissione di pubblicità che avrebbero potuto causare problemi di autostima in merito al proprio corpo.  La disposizione venne applicata su più di 12 000 annunci sui mezzi pubblici.

In Italia, prima che il coronavirus mettesse tutto in secondo piano, il 30 gennaio 2020 c’è stato il primo sì della Camera alla proposta di legge contro body shaming e fat shaming (far vergognare in quanto grasso, ndr). L’obiettivo è quello di arginare la tendenza, a cui l’utilizzo dei social network sta dando sempre maggiore diffusione, a giudicare, offendere o deridere una persona sulla base di una sua caratteristica fisica, offrendo strumenti di prevenzione e sostegno a chi è vittima di questi abusi.

Le conseguenze per chi li subisce possono essere drammatiche. Citando uno studio dell’Università dalla Florida si è stabilito, nel dibattito alla Camera, che queste “mortificazioni” mettono chi le subisce “a rischio di ingrassare ulteriormente e notevolmente” agevolando “comportamenti autodistruttivi, anoressia, bulimia, suicidio”, attivando la “vergogna del corpo che abitiamo”.

 Amelia Conte

 

 

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