Nonostante in tutti questi anni ci sia la volontà di far dimenticare questa storia noi gridiamo forte che non ci riusciranno mai perché questo diritto lo porteremo avanti fino alla fine
(Pietro Orlandi)
“Nonostante siano passati 35 anni vedere tanta solidarietà è una cosa importantissima, forse la cosa più importante, perché è quella che ci dà la forza per continuare a pretendere quello che è un nostro diritto, il diritto alla verità e alla giustizia e senza la vostra spinta, senza la vostra vicinanza sarebbe molto molto difficile – esordisce così, con un ringraziamento a chi c’è e a chi c’è stato negli anni, un emozionato Pietro Orlandi al sit-in che si è svolto a Roma ieri sera (22 giugno, ndr) in occasione del 35esimo anniversario della scomparsa di Emanuela Orlandi.
“Il Vaticano ha sempre mantenuto la volontà di non far emergere la verità e dall’altra la procura italiana ha accettato passivamente questa volontà e, nonostante ci siano persone che sanno, non si è fatto mai nulla per sapere come sono andate le cose –continua Pietro. E ogni giorno emerge un nuovo tassello come l’ultima notizia: si era sempre saputo che la prima telefonata ci fosse stata dopo l’appello del Papa il 3 luglio, ossia il 5 luglio. Oggi, solo oggi, sappiamo che la prima telefonata c’è stata la sera stessa in cui Emanuela è stata portata via, solo un’ora e mezza dopo è arrivata una telefonata in sala stampa in cui annunciavano il rapimento di Emanuela e volevano parlare con la segreteria di Stato. Quindi, quando noi familiari non sapevamo ancora nulla,in Vaticano già sapevano che Emanuela era stata rapita. Perché tenere questa cosa nascosta per 35 anni?” è la lacerante domanda senza risposta che Pietro tuona in via della Conciliazione, ai piedi della Basilica Vaticana.
Quel 22 giugno me lo ricordo benissimo e sono sempre stata convinta che quella data di 35 anni fa abbia segnato, in un certo senso, il mio passaggio all’età adulta, un vero e proprio cambiamento nel modo di percepire la vita e di analizzarne gli eventi.
Erano per me gli anni più belli dell’adolescenza eppure quelli in cui si fa di tutto – chissà perché? – per lasciare quel limbo di spensieratezza e “diventare grandi”. Avevo compiuto da poco 18 anni, da qualche giorno erano usciti i quadri a scuola ed ero stata brillantemente ammessa alla classe quinta superiore, quella della “maturità”. E proprio quel 22 giugno, visto che i miei genitori erano quelli che “il motorino no, la macchina sì, quando avrai la patente…” avevo “preso” il foglio rosa e mi apprestavo a fare gli esami di guida.
C’erano, dunque, già tutti i segnali di una adolescenza che aspirava a una crescita, non solo anagrafica, ma in consapevolezza e responsabilità. E tuttavia, quando, per la prima volta, ho visto la mia città tappezzata dei manifesti blu su cui campeggiava la grande foto di una ragazza con una fascetta sulla fronte, misteriosamente scomparsa, ho ritrovato, anzi ho, per alcuni giorni, con sofferenza ricercato, la mia mentalità adolescenziale. Ho provato a immergermi di nuovo in quel mondo fantastico che è solo dell’universo giovanile, e ho immaginato che Emanuela Orlandi avesse incontrato sulla sua strada un principe azzurro e che per seguire l’amore avesse lasciato tutto e tutti senza pensare alle conseguenze di chi resta, perché, si sa, l’amore è così.
Ogni volta che uscivo di casa e guardavo i manifesti di Emanuela, che poteva essere la mia compagna di banco, la mia migliore amica, la sorella che non ho mai avuto, riuscivo a trovare un motivo diverso per cui se ne fosse andata per sua volontà , come per dare sfogo a quella voglia di libertà, di indipendenza o di contestazione verso il mondo o i genitori che è tipico dei giovani. Non ho mai pensato, all’inizio, che qualcuno potesse averle fatto del male. Era un’idea lontanissima da me e, quelle volte in cui, con il passare dei giorni, il pensiero di un rapimento mi tormentava la testa e l’anima, subito dopo rifuggivo l’idea e me la immaginavo da qualche parte in città che rideva, mentre da lontano guardava tutti quelli che si preoccupavano di cercarla.
Quando poi il mio bisogno di comprensione di ciò che stava accadendo ha avuto il sopravvento sulle emozioni di ragazza, ho iniziato a cambiare la mia prospettiva sul mondo e sulla vita. Da lì, dal preciso momento in cui Emanuela Orlandi è scomparsa, da quando, ancora giovanissima, ho approfondito gli accadimenti e analizzato l’evoluzione della vicenda, ho capito che esiste una realtà fattuale e una realtà virtuale, che non è quella dei social – all’epoca non c’erano – ma quella che chi manovra i fili di noi burattini sulla scena vuole rappresentare.
Da lì ho capito che bisogna combattere per la verità e la giustizia, che è una battaglia difficile, a volte quasi impossibile, ma che non si può fare a meno di provarci. E grazie a Emanuela, a suo fratello Pietro e alla sua splendida famiglia, cerco di farlo ancora oggi, da signora di mezza età, con la mia “penna” o con la mia presenza silenziosa al fianco di chi si batte per verità e giustizia.
Lo devo prima di tutto ad Emanuela, che ho sempre portato nel cuore in questi 35 anni, e che mi ha fatto fare un salto di qualità come giovane prima e come donna poi.
Gilda Luzzi