L’umanità è da sempre flagellata da massacri di persone inermi ed innocenti. Accade per soldi, potere, politica. In ogni caso per scelte disumane. Da quando l’essere umano ha scoperto la fede in un Dio, ha una ragione o una scusa in più per uccidere. Ne abbiamo discusso con Jean Ehret, religioso cattolico e direttore dell’istituto Luxembourg School of Religion & Society e con Jean-Luc Karleskind, membro della Shoura, l’Assemblea della Comunità Musulmana in Lussemburgo
Dopo secoli di persecuzioni e carneficine fatte appellandosi all’Onnipotente, ancora oggi fedeli ed organizzazioni religiose compiono stragi nel Suo nome. Il fiume di sangue umano versato in nome di Dio è ancora in piena. Può una società plurireligiosa vivere in pace, senza violenze e discriminazioni commesse in nome di una divinità? Il complesso di diritti e doveri di una società civile garantisce la pacifica convivenza in una collettività pluralistica. Se fosse condivisa dalle religioni organizzate e nessuna reclamasse per sé una superiorità morale, sostenesse di detenere verità assolute o pretendesse di regolamentare la società in conformità alla legge del suo Dio, la fede di chi crede in un Dio non sarebbe più la causa di violenza e morte per chi crede in un altro Dio o non crede affatto.
«Le religioni – secondo Ehret – sono organismi complessi e non istituzioni rigide o sistemi indeformabili: sono organizzazioni composite, in cui la vitalità è garantita da una dinamica pluralista e la diversità è una ricchezza. Ogni religione è portatrice di un’identità che la differenzia dalle altre: ognuna è il risultato di un lungo percorso, di un incedere nei millenni attraverso innumerevoli testimonianze e riflessioni che continuano ancora oggi. Un fedele che dimentica o non conosce tutto questo e non percepisce il dinamismo interiore e la complessità della sua religione, facendo così la banalizza, ne travisa il senso e cristallizza in essa la propria insoddisfazione politica. La posizione fondamentalista – continua il direttore – non corrisponde alla grande tradizione religiosa: la consapevolezza dell’immensa e complessa storia del pensiero religioso e la sua conoscenza debbono indurci a relativizzare le nostre convinzioni. C’è poi una dimensione sociale che permette al fondamentalismo di radicarsi e di svilupparsi ed è quella in cui si manifestano miseria, disperazione, disoccupazione, esclusione sociale ed arretramento culturale».
Karleskind sostiene che molti problemi nel mondo derivano dal ridurre le persone ad una sola delle loro caratteristiche: «Io sono un uomo di 57 anni, francese, convertito musulmano e professionista della finanza. Sono tutto ciò e molto di più. La mia è l’identità di un essere umano che nasce libero e eguale in dignità e diritti secondo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e la fede è parte della mia esperienza del confronto con il mondo. Cammino su un sentiero spirituale che si chiama Islam e Sharia, parola oggi orribile; è il cammino verso la Sorgente che, come l’orizzonte, è impossibile da raggiungere. Dio è imprendibile e noi ascoltiamo il sussurro divino con il timore di fraintendere il Suo messaggio. Dio ci parla tramite il Corano, la Torah e il Vangelo e ci parla con i segni della Sua creazione chiamandoci alla riflessione». E ancora: «La nostra comprensione evolve nel tempo e nello spazio, nutrita dalle esperienze; e la lettura dei segni si rinnova ogni volta che li leggiamo. Il Profeta disse che tutte le azioni verranno giudicate secondo le intenzioni. Ognuno dovrebbe essere giudicato solo per quello che fa. Giudicare qualcuno per ciò in cui crede, un’idea o un Dio o per il colore della sua pelle è dispotismo quando è lo Stato a farlo e pregiudizio razzista quando è un individuo».
Sulla pari dignità e parità morale (Nessuno è migliore di qualcun altro perché prega un Dio o non ne prega nessuno) Ehret sostiene che la dignità umana è intoccabile e rispettarla e proteggerla è dovere dello Stato:
«La fede in Dio non è di per sé
criterio sufficiente a determinare
una superiorità morale».
Karleskind afferma: «La dignità umana è un valore che deve essere riconosciuto a tutti gli esseri umani. E il valore morale non è determinato dall’aver fede o meno in una divinità, ma dall’agire».
Sulla non pretesa di incontestabilità (Nella scena pubblica, le credenze e le convinzioni ammesse cessano di essere verità e diventano opinioni)
Ehret sostiene che «chi sceglie una professione di fede, la ritiene verità e orienta la vita in relazione alla comunità, alle fonti, alle tradizioni e alle dottrine della sua religione. Nelle democrazie occidentali i cittadini sono liberi di aderire a religioni o convinzioni filosofiche nel contesto della Carta Costituzionale».
Secondo Karleskind «ogni fedele crede che nel Libro vi sia la verità, ma nessuno può essere certo d’averla pienamente compresa; ogni lettura è relativa e va rinnovata nel tempo, contestualizzata; ogni convinzione è un’interpretazione soggettiva e può essere messa in questione».
Sulla non obbligazione religiosa a fondamento delle leggi di un libero Stato (Le leggi di uno Stato che valgono per tutti non devono conformarsi ai precetti di una divinità in cui credono alcuni) ecco le due considerazioni.
Secondo Ehret «la libertà religiosa è un diritto universale e le leggi di un libero Stato non hanno il loro fondamento nelle prescrizioni di una religione. Questo non esclude un riferimento ad un’eredità o ad una cultura religiosa». Conclude Karleskind: «Obbligare qualcuno a rispettare la legge di Dio è contrario alla legge di Dio e l’adesione alle prescrizioni divine sarà libera scelta e non può essere imposta dalle leggi di uno Stato. La neutralità di uno Stato laico è garanzia di libertà
per tutti».
Andrea Tirelli
(Articolo pubblicato sul numero di PassaParola Mag, marzo 2017)