Nel weekend in cui l’addio al calcio di Totti ha monopolizzato l’attenzione dei media, lo stesso dolore visto e vissuto sulle tribune dello Stadio Olimpico è stato provato da molti dei presenti alla Rockhal di Esch-sur-Alzette per la tappa lussemburghese del Long Goodbye Tour dei Deep Purple, ultimo giro del mondo per una band che ha segnato indelebilmente cinquant’anni di storia del rock e che recentemente è entrata di diritto nella Rock and Roll Hall of Fame.

 

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Nati nel 1968 a Hertford, in Inghilterra, i Deep Purple hanno rivoluzionato il modo di concepire, scrivere e suonare l’hard rock fin dagli esordi, consacrandosi poi con dischi monumentali come “In Rock” e “Machine Head”. Certo, non hanno avuto la risonanza mediatica di band come i Led Zeppelin o i Black Sabbath, ma il loro sound unico ha influenzato generazioni e generazioni di musicisti in tutto il pianeta, anche grazie ai progetti paralleli di diversi membri della band, come Rainbow e Whitesnake, che hanno sviluppato e portato avanti le innovazioni musicali concepite dal combo inglese.

La Rockhal ha fatto registrare praticamente il tutto esaurito, in una giornata insolitamente e fastidiosamente calda (che ha causato anche parecchi svenimenti in platea), grazie ad un pubblico che, come spesso accade ai concerti dei Deep Purple, era veramente eterogeneo. E non parlo solamente delle decine di nazionalità presenti (d’altra parte in Lussemburgo non è certo una sorpresa), ma soprattutto del fatto che tra il pubblico era possibile identificare almeno tre generazioni di rocker: chi ha vissuto in prima persona il periodo d’oro della band, chi è arrivato dopo ma ha potuto godere largamente dei vecchi e nuovi lavori e chi, purtroppo per lui, solo da poco, magari grazie ai consigli di papà e nonni, è arrivato a conoscere questa splendida realtà chiamata Deep Purple.  

La band inglese era accompagnata dai Monster Truck, giovane gruppo canadese che ha aperto le danze con circa quaranta minuti di hard rock vecchio stampo, cadenzato e venato di blues, che ha scaldato mani e corpi dei presenti con grande efficacia: davvero una bella realtà tutta da scoprire, con un paio di dischi all’attivo e sicuramente destinata a far parlare di sé in futuro.

La performance dei Deep Purple è stata, come di consueto, granitica. Guidata da una sezione ritmica unica come quella composta da Ian Paice alla batteria e Roger Glover al basso, la band ha proposto brani di tutte le epoche, anche se, trattandosi di un tour celebrativo, forse i pezzi estratti dagli ultimi lavori sono stati un po’ troppi. In ogni caso, i fan di vecchia data hanno potuto godere di perle immortali come “Fireball”, “Bloodsucker”, “Strange Kind of Woman”, “Lazy”, “Perfect Stranger”, “Space Truckin’” e “Hush”. Ovviamente, la Rockhal è letteralmente impazzita sulle note della conclusiva “Black Night” ma, soprattutto, sul capolavoro immortale che risponde al nome di “Smoke On The Water”: un inno rock che chiunque si sia avvicinato a questa musica o ad una chitarra elettrica ha ascoltato, suonato ed amato.

Come sempre impeccabile, ma meno incisiva rispetto ad altre esibizioni, la prova di Steve Morse alla sei corde, mentre Don Airey alle tastiere ormai ha preso un posto da protagonista all’interno della band, anche se effettivamente il ricordo dello scomparso Jon Lord non può in alcun modo essere cancellato, nemmeno dalla migliore delle esibizioni.

Un discorso a parte merita Ian Gillan, la cui voce ha reso i Deep Purple quello che oggi rappresentano. Da qualche anno, a causa di età ed eccessi, la vocalità del buon Ian non è più la stessa di un tempo. Eppure questa volta è apparso particolarmente in forma, capace di cavarsela con classe ed esperienza quando il fiato non rispondeva, ma anche di osare qualcosa sui passaggi più impegnativi. Nei cinquant’anni trascorsi on the road quest’uomo ne deve aver viste e vissute parecchie di vite, ma nel suo sguardo ancora si scorge qualcosa di splendido: gli occhi con cui guarda la platea mentre canta le sue canzoni e lo applaude non sono gli occhi di chi si sente arrivato, ma di chi si sente, semplicemente, grato e felice di stare sopra quel palco.

E come in un buon matrimonio non devono mai mancare le risate, forse è proprio questo il segreto della longevità dei Deep Purple: si divertono ancora insieme, disco dopo disco, concerto dopo concerto. Non credo che sia stato facile mettere la parola fine a questa meravigliosa storia, ma un altro segnale della loro grandezza è il fatto di aver avuto la consapevolezza di dire basta al momento giusto.

I fan dei Deep Purple, oggi, si sentono sicuramente tristi. Hanno consumato i loro dischi, hanno suonato e risuonato i loro pezzi, hanno cercato di raggiungere le note cantate da Gillan, hanno macinato chilometri per seguirli dal vivo, speso centinaia di Euro per i loro dischi, hanno sognato, grazie a loro, di diventare musicisti, e magari qualcuno ci è anche riuscito. Hanno dato molto, moltissimo, a tutti noi. Ma credo che la tristezza, anche se ampiamente giustificata, possa lasciare il posto all’appagamento, ad un senso di gratitudine ed affetto, ad un ultimo, lunghissimo applauso con gli occhi lucidi rivolti verso il palco.

Goodbye Deep Purple, e grazie.

Alessandro Quero

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