Si è concluso questa settimana al teatro Stabile La Corte di Genova il tour teatrale, iniziato il 31 gennaio dal teatro Coccia di Novara, che ha fatto tappa in molte città italiane registrando un notevole consenso di pubblico.
La nota pièce teatrale di Henrik Ibsen prende nuova vita con il suo riallestimento ad opera di Andrée Ruth Shammah che ne ha curato traduzione, adattamento e regia, affidando il ruolo principale di Nora a Marina Rocco.
“Una casa di bambola” (con l’aggiunta dell’articolo nel titolo) vede protagonista un superlativo Filippo Timi che si cimenta nell’ardua impresa di interpretare tutti e tre i personaggi maschili: l’avvocato Torvald Helmer, marito-padrone; il procuratore Krogstad, perfido ricattatore e il dottor Rank, l’amico segretamente innamorato che incita Nora a fuggire e a spiccare il volo.
I tre personaggi principali simboleggiano anziché uno o tre uomini, l’intero genere umano di sesso maschile in qualche modo accomunato, quello “contro” cui, infine, si rivolta Nora, effetto reso ancor più esplicito nel momento in cui una delle trasformazioni avviene proprio sotto gli occhi del pubblico (in generale molto “stimolato” a partecipare tramite alcuni ammiccamenti, gli ingressi e l’uscita trionfale dalla platea).
Molto bravi tutti i protagonisti: Mariella Valentini, Andrea Soffiantini, Marco De Bella, la piccola Angelica Gavinelli (che suona l’arpa dal vivo), Paola Senatore ma soprattutto Filippo Timi che si dimostra artista a tutto tondo non solo grazie all’interpretazione dei tre ruoli maschili, ma anche perché si cimenta in una tarantella, dà prove di canto con My funny Valentine e riesce a sorprendere il pubblico tramite alcune battute che diffondono un senso di comicità nei passaggi di maggiore tensione, con il solo fine di stemperare la situazione.
Sorprende anche Marina Rocco, una Nora fragile e delicata, che si dimostra forte e volitiva al momento della sua scelta finale, quando rivendica coscientemente il suo diritto di andare verso la ricerca di una sua propria identità ed autonomia per non sentirsi più solo una “bambola”. Questo passaggio è ben sottolineato anche nel cambio di abito: il rosa confetto del vestito lungo che Nora indossa per quasi tutta la durata dello spettacolo (contribuendo al ruolo di civetta o “allodola”, come la chiama Helmer) lascia spazio a un completo gonna e giacca rosso acceso, quasi a voler sottolineare anche tramite il cambiamento cromatico la presa di coscienza o per lo meno il suo tentativo.
Tutto l’allestimento e le scenografie rosa confetto rimandano chiaramente a quelle gigantesche case per bambole ottocentesche; anche i costumi di scena realizzati da Fabio Zambernardi, in collaborazione con Lawrence Steele, sono una delle scelte in grado di guidare lo spettatore nello svolgimento della trama.
Il testo di Ibsen, un grande classico del teatro contemporaneo, ha quindi ancora molto da dire attraverso la molteplicità delle sue possibili letture: una storia di incomunicabilità tra uomo e donna, che mette in evidenza le difficoltà inevitabili che ci si trova a vivere in una coppia in cui ci si ama, si finge, si lotta e ci si mente e che, come affermato dalla regista stessa in una chiave di lettura senza pregiudizi, “non parla di una moglie che sfugge a suo marito, ma della relazione uomo-donna arrivando al cuore più profondo, là dove tutto è meno innocuo e veniale, le donne più ambigue, violente, gli uomini meno semplici, forse più femminili”.
In particolare nel drammatico finale quando Nora accusa Helmer di trattarla come una bambola e esprime il suo desiderio di fuggire per trovare sé stessa, è proprio Helmer a chiederle di provare a cercare sé stessa all’interno della coppia: ne resta un uomo solo con tutte le sue fragilità e debolezze.
Alberta Acri