Il 17 settembre scorso il sito Unesco di Piazza Grande a Modena ha ospitato la lectio magistralis “Management dell’esistenza” di Michela Marzano, nel quadro del 15°Festival della Filosofia. Resoconto.
Chi non conosce la Marzano può storcere il naso credendo che dietro il titolo si nasconda in realtà un mero sofisma dal gusto esotico-imprenditoriale; chi la segue da anni sa, invece, che si è occupata dello statuto del corpo nella condizione umana contemporanea, di bioetica, di sessualità e di innumerevoli tematiche che si raccolgono sotto l’etichetta, piuttosto vasta, di “filosofia morale”. L’ascoltatore di quest’ultimo tipo sa anche che il dialogo filosofico può aprirsi e svilupparsi attorno a una domanda, o molte, e attende quindi che la filosofa, di origini romane, chiarisca il senso del titolo proprio ponendo degli interrogativi.
Infatti è così: quando si parla di management dell’esistenza ci si chiede se il modello della competizione e della performatività aziendale possa applicarsi alla vita; se tale competizione sia da intendersi in riferimento agli altri, a se stessi o a entrambi; se l’applicazione di questo modello rappresenti una soluzione vincente o sia per definizione destinata al fallimento – ma allora cosa si vince e cosa di perde?
La Marzano non manca di mostrare la propria sensibilità storico-filosofica, ecco perché un articolo di Luigi Einaudi del 1923, intitolato La bellezza della lotta, costituisce il punto di partenza se non per trovare risposta ai quesiti iniziali, almeno per comprendere la legittimità degli stessi. Vent’anni dopo le critiche weberiane al Geist des Kapitalismus e alla “gabbia di durissimo acciaio” in cui si è trasformato il mantello del protestantesimo, Einaudi scrive: «la natura umana è cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita». Le parole di Einaudi celano un’etica della competizione, alla cui base vi sarebbe una concezione antropologica dalle antiche origini, quella secondo la quale l’uomo tende sistematicamente a elevarsi, a superare se stesso, in una parola: perfezionismo – il medesimo valore che nel contesto contemporaneo della performatività-a-tutti-i-costi spinge ognuno ad andare oltre i propri limiti.
La riflessione sul perfezionismo nel pensiero liberale trova espressione in John Rawls e, più nello specifico, nel suo scritto A Theory of Justice (1971): tra le diverse teorie teleologiche, che specificano cioè una concezione del bene, il perfezionismo consiste nella massimizzazione dell’eccellenza umana la quale, però, prospetta una problematica di respiro più ampio, non più individuale, quale l’amplificazione della disuguaglianza dovuta alla valorizzazione di alcuni individui a scapito di altri.
In altri discorsi filosofico-etici, invece, è capitato che al valore dell’eccellenza e della perfettibilità individuale si accompagnassero gli ideali di autonomia personale, di possibilità di determinazione e, dunque, di autoaffermazione e autocreazione; si tratta di un’idea del bene che si esprime nel linguaggio della meritocrazia e di cui il successo è non solo realizzazione e suggello ma persino condizione. Questo “sogno liberale” di autodeterminazione veniva descritto da Isaiah Berlin, in Two Concepts of Liberty (1958), come capacità dell’uomo di concepire se stesso in quanto pensante, desiderante e agente; ma può quest’etica della competizione, quale management dell’esistenza, realizzare il suddetto sogno? La risposta della Marzano è “no”.
Le estreme conseguenze di questa etica possono arrivare a produrre infatti uno sterile “culto della performance” e generare uno slittamento di attenzione dal “saper fare”, inteso come ambito delle competenze personali, al “saper essere”, l’ambito in cui al contrario non basta essere capaci di fare o gestire qualcosa ma anche di gestir-si.
La “gestione individuale” consiste appunto nell’abilità del singolo di amministrare, sotto propria ed esclusiva responsabilità, molti aspetti della persona: il corpo, la psiche, l’emotività, persino le relazioni con l’altro e, più in generale, con il reale. Come divulgato dai moderni life coaches, chiosa la filosofa, questa esasperante supervisione manageriale del sé si dovrebbe attuare attraverso una gestione del linguaggio; per di più gli stessi autoproclamantesi guru del life style di successo promuovono una sorta di nuovo volontarismo, l’idea cioè della possibilità per ogni individuo, garantita se lo si vuole davvero, della realizzazione di qualsiasi obiettivo, tralasciando l’annesso delirio di onnipotenza nel voler imporsi anche al limite costitutivo dell’uomo, ovvero la realtà che è appunto “altra”. È attraverso nuove “ricette” di comportamento – la Marzano le definisce scherzosamente “principio della maionese” – che viene così prescritto al soggetto di filtrare il mondo andando oltre il caos contingente, di concentrarsi solo su determinate emozioni, di pensare e parlare secondo un preciso linguaggio. Eppure, annota subito la filosofa citando Jaques Lacan, la verità del soggetto emerge proprio quando si balbetta! Uno degli aspetti più preoccupanti di questa ondata neo-volontarista risiede nella valutazione del soggetto quale unico e diretto responsabile di ogni scelta.
L’accezione della contemporanea e occidentale nozione di autonomia è, come si può intuire, ben lontana dalla definizione datane da Kant e, per di più, essa pare in un certo senso svuotata dall’interno. Il soggetto sembra libero di compiere delle scelte mentre in realtà si trova a preferire uno scopo già deciso, a lui resta solo la selezione dei mezzi per raggiungere quest’ultimo: gli obiettivi non sono negoziabili e l’autonomia risiede invece negli strumenti. Per chiarire meglio la questione, la Marzano introduce l’esempio di Jaques le fataliste et son maître, dialogo di Denis Diderot: in un passo riguardante proprio la capacità e la libertà di scelta, Jaques il servo chiede al padrone se sia disposto a gettarsi da cavallo qualora sia lui e nessun’altro a deciderlo; il padrone rappresenta in questo caso proprio l’illuso difensore e sostenitore del modello personalistico, diretto e libero di elezione: si butterebbe da cavallo pur di provare di essere libero di una simile scelta. “Come! – si oppone Jaques – Se non vi avessi contraddetto mai vi sarebbe venuto in mente di rompervi il collo!”.
Quando il discorso della Marzano volge al termine è facile prevedere le conclusioni del ragionamento: il management dell’esistenza, che intreccia elementi quali il successo, l’utilità e l’apparire, cela in realtà un fallimento esistenziale.
La gestione della propria vita come risorsa (il termine indica chiaramente un mezzo di cui ci si serve) contribuisce a nulla più che un accumulo di gesti, di motti, di oggetti che complessivamente rendono l’immagine di una vita di successo; tuttavia, condividendo la posizione di Georges Canguilhem, dietro un tale successo vi è appunto un insuccesso esistenziale, uno scacco dell’esistenza che concede di apparire mentre l’essere si svuota di senso. In questa direzione si estende il dominio della manipolazione, espressione di una mancanza di accettazione, di riconoscimento e di amore – per sé e per gli altri.
Clelia Crialesi