In occasione dell’incontro con l’ex magistrato Roberto Settembre, organizzato dalla Libreria Italiana e Amnesty International Luxembourg che si terrà venerdì 27 febbraio 2015 (ore 19), presso l’Université du Luxembourg (Campus Limpertsberg, Bâtiment des Sciences, Salle 003), intervistiamo l’autore del libro dedicato ai fatti del G8 : Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto (Einaudi 2014).

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I fatti del G8, tenutisi a Genova nel luglio 2001, sono ben noti ed impressi nella memoria dei cittadini italiani e non solo. Come mai ha deciso di  raccontare, in una forma diversa da quelle di una sentenza, i fatti accaduti  nella caserma di Bolzaneto?

Circa questa prima domanda,  devo riconoscere che, andato in pensione, non pensavo di  scrivere un libro su quei fatti, ma solo di  riesaminare  la vicenda con più calma. Viceversa alcun amici mi  invitarono a provarci. Ebbene, la risposta alla sua domanda  credo che  possa riassumersi  con una riflessione  che attiene marginalmente a una problematica della filosofia del diritto. Voglio dire che  ogni processo penale che veda contrapporsi vittime e carnefici, passa  attraverso due   fasi essenziali: l’accertamento di una colpa e la pronuncia di una pena. Ebbene:  il nesso   che lega  questi due elementi è un nesso linguistico convenzionale costituito  dalla sentenza. Ma la sentenza ha un’ulteriore valenza. Nel corso del processo le vittime, che furono oggetto del   crimine,  diventano, con la loro testimonianza,  soggetto  protagonista del processo, e quando la sentenza definisce il processo, la pronuncia della pena consente a questi soggetti, almeno sul piano della relazione sociale, ma non solo, di riappropriarsi della loro soggettività: la sentenza può assimilarsi a una sorta di epifania del soggetto,  che  da vittima/oggetto diventa appunto soggetto/ testimone e  infine  soggetto titolare del suo diritto riconosciuto a pieno titolo. Ma che accade quando la sentenza, invece di costituire quel nesso, dichiara che il reato è estinto per prescrizione? Accade che la pronuncia resta muta, e le vittime/oggetto  si vedono negato il loro riconoscimento, di cui hanno esigenza per riappropriarsi della loro dimensione soggettiva.

Interviene a questo punto la narrazione (cioè il libro) che, quanto più  grave  è stato lo spossessamento della soggettività, tanto più analiticamente, attraverso la ricostruzione dell’evento che trasformò la vittima in oggetto, consentirà attraverso la lettura, di ridare  totale soggettività alle persone che subirono il delitto. Ovviamente non si tratta   ripercorrere il processo,  bensì di  permettere al lettore di formulare un  giudizio umano, o politico,  della vicenda, e permettere così, su un piano diverso da quello processuale, che si realizzi l’epifania negata dalla sentenza.

Questo  ho cercato di fare scrivendo “gridavano e piangevano”.

gridavano

Sappiamo che il reato di tortura non è previsto dall’ordinamento giuridico  italiano. Tuttavia la tortura è ampiamente condannata all’interno della Convenzione Onu sui diritti dell’uomo. In che modo sarebbe possibile rendere conforme la legislazione italiana in tal senso?

Ciò dovrebbe avvenire su due piani:  codificare il reato di tortura come reato proprio e non come reato comune (  come invece ha fatto l’ipotesi di reato approvata in commissione  al Senato della Repubblica, che  svuota  di senso e di ratio lo stesso istituto  giuridico in questione): cioè a dire  sanzionando la tortura nelle’accezione   della Cedu e della Convenzione di New York del 1984 ( entrambe ratificate dall’Italia), prevedendo l’imprescrittibilità di tale reato; e  agendo incisivamente nelle  scuole di formazione  della Polizia di Stato, della Polizia penitenziaria, della Guardia di Finanza e dei Carabinieri, e farlo in modo trasparente.

Dietro i fatti di Genova, e che Lei racconta nel suo libro, emerge una forte  violazione dei principi democratici e di libertà tipici di uno Stato di diritto: non  solo tortura, ma limitazione della libertà personale e di pensiero. A 14 anni di  distanza dal G8che bilancio può farci in merito allo stato della democrazia in Italia e in Europa, anche alla luce di ulteriori e simili episodi di violenza?

Questa purtroppo è una domanda che richiederebbe uno spazio di risposta non compatibile con  un’intervista. Francamente  sono molto amareggiato per quanto è accaduto dopo i fatti  del G8 2001 di Genova: non c’è stata  risposta istituzionale, non c’è stata una commissione parlamentare d’inchiesta, le sentenze della Corte di Appello di Genova confermate dalla Cassazione non hanno comportato, né serie  conseguenze per i pochissimi condannati, né alcuna seria riflessione   da parte dei vertici dello Stato. Nel corso delle oltre 15 occasioni di presentazioni del mio libro, non ho mai avuto modo di confrontarmi con nessun esponente delle forze dell’ordine, neppure del sindacato di polizia, il reato di tortura è stato  previsto nel disegno approvato  dal Senato come reato comune   solo come ipotesi aggravata  se commesso dal pubblico ufficiale, talché, col bilanciamento  delle attenuanti  e  coi riti alternativi,  perderebbe ogni  deterrenza.  Delitti simili hanno continuato ad essere commessi (dico simili e non uguali, per fortuna, ma  temo di dover pensare che delitti simili  non  siano più stati commessi solo perché non ce n’è stato bisogno…).

La democrazia ha bisogno di una cultura del rispetto  del dissenso, che passa anche attraverso  la repressione dei reati che talvolta accompagnano la protesta, senza dimenticare mai che  chi protesta non è un nemico assoluto  da distruggere, ma un cittadino la cui punizione eventuale rientra nei parametri dello stato democratico.

Sul punto l’Europa non è tutta uguale: la Germania, ad esempio,  che pur  ebbe la sua sciagura totalitaria, non ha più nulla di ciò nel  modo con il quale gestisce l’ordine pubblico e opera sul piano della repressione penale.

S’impone per tutto ciò l’attiva vigilanza dei mezzi di controllo, e la stampa è in prima linea.

Rita Marsico

 

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