Dopo il loro primo ed unico lavoro discografico: “1+1” modernissimo e minimalista, l’Auditorium Parco della Musica di Roma ha accolto in concerto, lo scorso 26 luglio, Herbie Hancock e Wayne Shorter.
A vederli assieme si pensa ad una centrifuga nello spazio e nel tempo della storia del jazz.
Due mostri sacri della musica il cui primo sodalizio risale ai tempi in cui facevano entrambi parte del quintetto di Miles Davis. Hancock era stato scelto da Davis a dispetto della sua giovanissima età. Shorter invece, già 1962, era uno dei musicisti di jazz più stimati dalla critica e dal pubblico e in quel quintetto non era solo uno strumentista ma portava avanti anche il suo lavoro da compositore ed orchestratore.
Niente di così distante dalla musica di Miles Davis i concerti in duo, che seguirono alla loro uscita discografica del 1997.
Il loro lavoro senza più alcuna “dirigenza” sviluppava l’idea di una ricerca ben più astratta e meditativa, dove il suono era sempre rarefatto. Già allora le atmosfere dilatate di 1+1 sorpresero oltre quanto ci si potesse aspettare.
Gli Hancock e Shorter del 2014 continuano a muoversi in quella stessa direzione.
Il loro non è un concerto facile da raccontare. E’ chiara una struttura immutabile dove Hancock sostiene l’ armonica e la forza compositiva di tutti i brani mentre Shorter, sul suo sgabello, mette la sua voce, a tratti più intensa in un inesauribile piena di suoni, spesso dissonanti e dove spuntano rare, alcune frasi abbozzate. Non mancano anche dei vuoti ampi in cui, senza il suono del sax di Shorter, esce forte la bellezza del pianoforte a coda che Hancock ha alternato per l’occasione al piano elettrico.
E’ un concerto in cui i temi latitano e certamente questo può essere stato, per molti, un motivo di difficoltà d’ascolto. Il jazz sperimentale ha lasciato a bocca asciutta chi si attendeva lo svolgimento dei buoni e vecchi cari temi del genere.
La formula in duo richiede con ogni evidenza le corde più personali ed introspettive; richiede all’ascoltatore una concentrazione non indifferente. Shorter ha un gran da fare con le meccaniche del sax soprano e le incursioni di Hancock con il piano elettrico richiamano continuamente alla mente l’universo musicale di fine Anni ‘70 primi ‘80, che il pianista non hai mai smesso di sentire come distintive della sua musica. Ci si può, dunque, annoiare se si attende il brano riconoscibile e se non si ha l’orecchio pronto a percepire gli spazi e la qualità dei suoni.
Risultano persino comprensibili le defezioni dopo la prima mezz’ora di concerto, quando alcune persone hanno lasciato la Cavea. Nulla di strano per il pubblico presenzialista del jazz romano, parecchio attento al peso dei nomi sul palco più che all’atmosfera sensazionale d’insieme.
Da qualunque età e scuola la si prenda, l’eclettismo ed il talento permettono sempre il sacrosanto lusso di essere solo il musicista che sei, e in questo caso, anche dopo una carriera epocale di andare avanti oltrepassando la stessa identità storica che hai rappresentato.
Senza attingere al loro oceano di successi consolidati, Hancock e Shorter sono la prova provata della longevità e della grandezza che il suono ha, soprattutto quando viene posto come l’unico vincolo a cui si deve dare conto.
Hancock stesso sul lavoro in duo con Shorter dice: “Ciò che ci preme è scavare nella nostra musica, andare in profondità, al cuore stesso del suono. Il suono acustico è ciò da cui nasce tutto“.
Valentina Pettinelli