N. Ammaniti e J. Portante. Foto di Gilbert Pregno. per Istituto italiano Cultura Lussemburgo.
N. Ammaniti e J. Portante. Foto di Gilbert Pregno per l’Istituto italiano Cultura Lussemburgo.

La sala del Cercle Citè di Lussemburgo, lo scorso 30 gennaio, si gremisce in anticipo  ed è stracolma quando, alle 19, giacca di velluto marrone e scarpe da tennis rosse, arriva Niccolò Ammaniti accompagnato dalla moglie Lorenza per l’incontro organizzato dall’Istituto italiano di Cultura. E’ una serata piacevole e rilassante quella che ci aspetta: guidato dalle domande di Jean Portante, Ammaniti ci apre una finestra sui suoi libri, i suoi personaggi e, un pizzico, sulla sua vita.

Seduto in poltrona, anche senza la penna in mano, Ammaniti si conferma sapiente narratore, capace di suscitare emozioni, scatenare risate, catalizzando l’attenzione dell’uditorio per più di un’ora. Ha raccontato dei suoi libri, delle ambientazioni, dei personaggi per i quali, anche quando si macchiano di atti deplorevoli, mostra affetto e sincera compassione. Sono persone comuni – dice – nei cui atti “mostruosi” c’è una causa scatenante che va compresa più che condannata. I protagonisti dei suoi libri sono sempre adolescenti; ha cercato di smettere, ma – ammette – non ci riesce. Perché?

Perché l’adolescenza è il periodo più ricco di cambiamenti e di trasformazioni della nostra vita, in cui, attraverso lo scontro con i genitori, si diventa adulti e, soprattutto, si capisce che adulto si vuole diventare. E’ il momento in cui, stesi a letto, non si lavora più di fantasia come i bambini, ma ci si preoccupa dei coetanei e del loro parere.

Della sua adolescenza Ammaniti ha raccontato la sua passione per i “buchi” che tanta parte hanno nei suoi romanzi, la cantina dei genitori dove amava rifugiarsi a leggere o a fare niente, ad annoiarsi; ci ha raccontato della sua passione per gli acquari, che riempiva di pesci provenienti da angoli opposti della terra e che costringeva alla convivenza, ci ha raccontato della facoltà di biologia, dei mesi trascorsi nello studio del padre a scrivere una tesi che non avrebbe mai dato e che sarebbe diventato Branchie, il suo primo romanzo.

Alla fine dell’incontro l’autore si è fermato con il pubblico, ha stretto mani, ha firmato autografi, scambiato due parole con il garbo e la disponibilità di chi non si è montato la testa.

 

Angela Mattei

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