“Corps de femme – Danger de mort”: il femminicidio, l’uccisione di una donna perché donna, è la forma estrema della violenza di genere, della violazione dei diritti umani delle donne, e rappresenta il problema numero uno in materia di diritti umani in Messico. Se ne è parlato al Centre d’Information Tiers Monde (CITIM), il 7 ottobre scorso, con Alfredo Limas, professore universitario e codirettore dell’Osservatorio della violenza sociale e di genere di Ciudad Juárez ed Eva Arce, madre di Silvia Arce, scomparsa nel 1998.

 

femminicidio

Ciudad Juárez, città messicana al confine con gli Stati Uniti, è ormai tristemente associata al termine femminicidio, in seguito ai casi di scomparse e brutali assassinii di donne iniziati nel 1992. Fino agli anni ’60 un polo d’attrazione e città emblema delle “maquiladoras”, stabilimenti di industrie multinazionali, a partire dagli anni ’70 la città attira una migrazione massiccia di giovani donne alla ricerca di lavoro per una bassa retribuzione.

In un contesto socio-economico di degrado e di forti disuguaglianze, nel 1992 inizia la serie impressionante di scomparse di giovani donne, per la maggior parte operaie nelle “maquiladoras”, di cui si perdono le tracce in pieno giorno, nella città, durante il tragitto verso casa, la scuola o il lavoro, durante normali attività della vita quotidiana.

Nel 1993 è scoperto il primo cimitero clandestino, con i cadaveri di otto donne che riportano segni di tortura, violenze sessuali e strangolamento, nel 1996 un secondo cimitero alla frontiera con il Nuovo Messico. Si tratta di crimini a carattere sessuale che rivelano torture e atti di estrema crudeltà. I corpi ritrovati sono quelli di alcune giovani – di età compresa tra 11 e 28 anni – la cui scomparsa era stata invano denunciata dalle famiglie.

Alfredo Limas definisce i fatti di Ciudad Juárez come il risultato della presenza di un gruppo di criminali in un contesto di connivenza, corruzione e impunità generalizzata. Fin dall’inizio le famiglie che denunciano le scomparse si scontrano con l’indifferenza e l’inefficienza, o addirittura con atteggiamenti vessatori, pressioni e minacce da parte delle autorità e della polizia. La stampa rilancia insinuazioni su una presunta doppia vita delle donne scomparse, mettendone in dubbio la dignità e la reputazione. Una rete di complicità tra politica, forze dell’ordine corrotte e criminalità organizzata, e la cultura sessista dominante, ostacolano per molti anni la ricerca di verità e giustizia.

Le indagini del governo messicano sono frettolose e poco obiettive, si fabbricano colpevoli per archiviare i casi. Le famiglie, le attiviste femministe, le organizzazioni della società civile non credono ai risultati ufficiali e si mobilitano per indagare, cercare testimoni, scoprendo gravi irregolarità nelle indagini e nei processi. Alla fine degli anni ‘90 le autorità vogliono archiviare il dossier femminicidio con la cattura di cosiddetti responsabili, ma nel novembre 2001 è scoperto un nuovo cimitero.

La mobilitazione delle famiglie, delle associazioni e dei movimenti per i diritti umani si intensifica e richiama l’attenzione internazionale: dei misteriosi assassinii di Ciudad Juárez parla la stampa estera, se ne occupano il Parlamento Europeo, le Nazioni Unite, Amnesty International, il discorso si sposta sul piano dei diritti umani. 

La sentenza “Campo Algodonero” : Alfredo Limas sottolinea la svolta rappresentata dalla sentenza del Tribunale interamericano per i diritti umani del 10 dicembre 2009, sull’uccisione di tre giovani donne ritrovate in un campo di cotone nei pressi di Ciudad Juárez. Il tribunale afferma che i casi specifici delle tre ragazze sono emblematici di una situazione più generale, e che la violenza subita dagli anni Novanta dalle donne di Ciudad Juárez costituisce una violazione strutturale dei loro diritti umani sulla base del genere. In questa storica sentenza il Messico è condannato per non aver saputo garantire e proteggere i diritti umani fondamentali delle donne uccise e delle loro famiglie, e per averle discriminate in quanto donne. E’ la prima volta che una sentenza riconosce un’identità giuridica al concetto di femminicidio.

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“Ni una muerta más”

Le donne, le attiviste, le associazioni sono state il motore del movimento che ha permesso di continuare a cercare la verità nel corso degli anni. Le famiglie si battono con forza e dignità per trovare i colpevoli e ottenere giustizia, e per mettere fine all’impunità dei funzionari negligenti e corrotti. Memoriali delle famiglie, quadri rosa con una croce nera sorgono dappertutto nella città e nelle campagne per ricordare le vittime del femminicidio, marce di protesta sono organizzate a Ciudad Juárez e nella capitale messicana con foto delle vittime, croci rosa con le foto e i nomi delle donne scomparse o uccise, per non dimenticare e perché questi fatti non si ripetano.

 Eva ARCE, la cui figlia Silvia scomparsa nel 1998 non è stata mai ritrovata, ha portato la sua testimonianza a nome della lotta delle madri e delle famiglie per giustizia e verità. Racconta le reazioni di scherno, le minacce subite, le insinuazioni sulla figlia, l’incapacità e la complicità delle forze dell’ordine. Grazie a donne come Doña Eva l’attenzione è rimasta e rimane alta. Particolarmente toccante è il racconto con cui Doña Eva ricorda la figlia, rievocandone la semplicità e bellezza degli atti della vita quotidiana, il canto, il sorriso, le consuetudini familiari. Come molte altre madri che scelgono di ricordare le figlie tramite l’arte, il canto, il teatro, Doña Eva legge, con voce carica di emozione, una delle poesie scritte per la figlia. Con femezza Doña Eva ripete che non si farà fermare, che andrà avanti nella sua ricerca di verità, per la figlia e per tutte le altre ragazze vittime dello stesso destino.

L’esempio del Messico si è esteso agli altri Stati latinoamericani. Definire femminicidio gli atti estremi di violenza di genere ha determinato una maggiore consapevolezza nella società civile e nelle istituzioni sulla natura di questi crimini. Il reato di femminicidio è stato inserito in molti codici penali in America Latina.

Se ancora troppe sono le ombre e le omissioni colpevoli sui crimini di Ciudad Juarez, rimasti per la maggior parte impuniti, l’unica risposta è mantenere alta l’attenzione internazionale, informare l’opinione pubblica, esercitare pressioni, raccogliendo documentazione e statistiche, come fa l’Osservatorio diretto da Alfredo Limas, e mettere lo stato di fronte alle sue responsabilità nel momento in cui non è in grado di garantire il diritto delle donne alla loro integrità fisica e psichica e a vivere con sicurezza e dignità nella propria comunità.

 

Rosa Brignone

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