Lo scorso giovedì 29 novembre a Bruxelles, presso lo spazio Ihecs, Présence e Action Culturelles in collaborazione con la rivista  Philosophie Magazine, hanno organizzato un incontro con Toni Negri nell’ambito delle Conférence PhilO, la filosofia nell’ambito cittadino. Ha partecipato il nostro collaboratore Mauro Pizziolo che ci riporta le sue riflessioni.

 

Per un pubblico di lettori italiani, il nome di Toni Negri è irrimediabilmente legato ad una fase storica ancora per molti versi oscura del Belpaese: quella degli anni di piombo, quando nelle piazze, nelle università, negli uffici e nelle fabbriche della penisola si produceva lo scontro, feroce, fra lo Stato e una molteplicità di forze sulle quali lo Stato era chiamato ad affermarsi. Un’eterogeneità di forze e poteri che rivendicavano a sè, manifestamente o in maniera occulta, ideologicamente o meno, con interessi e strategie più o meno esplicite, un ruolo nella definizione delle forme del potere centrale e in senso lato sui destini e sulla vita del paese, sulla sua politica, sulla sua economia, sulla società.

Degli scontri di piazza, delle bombe, delle stragi, degli attentati, dei morti di quegli anni, riaffiorano immagini drammatiche, vivide, ma che come tessere di un mosaico mal riuscito non rendono un’altrettanto chiara visione d’insieme di quanto avvenuto. Se il ‘68 fu per molte società occidentali l’anno di numerose rivoluzioni culturali e politiche, esso inaugurò in Italia quella che potremmo chiamare una “piccola guerra civile” che si è allungata sul decennio successivo e che, come un calderone, continua ancora oggi a produrre di sè rappresentazioni, interpretazioni, verità parziali, a cui di volta in volta si aggiungono tasselli. Certo è che se di piccola guerra civile possiamo parlare, vero è che ai più, in Italia, in questi anni, essa è stata raccontata dai vincitori secondo una “verità di Stato”, necessaria per la legittimazione della sua classe politica.

Docente di Filosofia Politica all’Università di Padova, in quegli anni Negri orienta la sua ricerca intorno alla “forma Stato” secondo un prospettiva d’analisi marxista, quella degli operaisti, che vedeva lo sviluppo economico capitalistico subordinato alle lotte operaie, da cui quindi far seguire la comprensione dei meccanismi di riproduzione sociale. Da qui, la necessità di porre al centro dell’esegesi della società moderna il lavoro e la sua trasformazione.

L’automazione sempre più pervasiva delle fabbriche, che nasce come un effetto delle rivendicazioni sindacali, cambia in quegli anni la natura stessa del lavoro: il plusvalore economico non è più soltanto prodotto del lavoro materiale, ma risulta in maniera sempre più determinante dai processi comunicativi e sociali in cui circolano i beni di consumo.

E’ il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale, dove la società nella sua totalità e la vita stessa sono inserite nei circuiti di valorizzazione economica: non più “politica” dunque, ma biopolitica, perchè non esiste più separazione fra il politico e l’economico nella fabbrica-società, appunto. In essa non si muovono più soltanto oggetti prodotti per soggetti (storici), ma anche soggetti, soggettività, “prodotte” per oggetti. Nell’analisi negriana, la fabbrica-società produce soggettività e moltitudini a ritmi che le forme tradizionali di governo o le istituzioni statali non possono più captare, fissare. Queste trasformazioni in un certo senso, segnano la crisi della democrazia rappresentativa, la pongono fuori tempo, la rendono obsoleta. Posizioni, queste, che lo Stato e gli apparati di governo, PCI in primis, non perdonarono certo al Professore.

Toni Negri dunque, “cattivo maestro” in Italia e acclamato intellettuale all’estero, intensifica negli anni del carcere lo studio di Spinoza, che gli offre una diversa prospettiva per l’osservazione dei cambiamenti contemporanei.

Non è nella tradizionale opposizione hobbesiana fra ius naturalismo e ius positivismo o fra “privato e pubblico” che può inquadrarsi una forma di governo pienamente democratica e partecipativa, bensì è alla luce della naturale tendenza dell’uomo a “mettersi insieme”, condividere, a mettere in comune i propri bisogni, che potremmo leggere una diversa storia delle istituzioni. Un’istanza, questa, che consente una visione dinamica del processo storico, in cui il potere costituente della moltitudine e del comune giocano il ruolo di primo piano.

Negli anni della “fuga dallo Stato” a Parigi, Negri frequenta l’ambiente intellettuale parigino Foucault, Deleuze, Guattari, nel cui pensiero ibrida le proprie intuizioni fino a mettere a punto una ghiera interpretativa capace di cogliere le trasformazioni in seno alla società globalizzata, dove i confini geografici e politici dello Stato-nazione sono sempre più porosi, dove il lavoro umano è divenuto immateriale e cognitivo in misura sempre crescente e dove i livelli di cooperazione economica si intensificano, forti della velocità su cui viaggia la comunicazione su internet, priva di frontiere nazionali nell’economia-mondo.

Ne nasce una trilogia di riferimento per tutto il pensiero critico mondiale: “Impero”, “Moltitudine” e “Comune”, imperniata sulle domande di una vita intera: com’è possibile organizzare una società realmente libera? Come ci si può governare attraverso processi partecipativi, senza più “maestri” o rappresentanti? Come possiamo inventare il Bene Comune? Com’è possibile, d’altra parte, parlare ancora di proprietà privata senza cogliere che essa stessa, in fondo, è una relazione all’interno di una spazio collettivo, moltitudinario?

A partire da queste suggestioni Negri e Hardt arrivano a opporre il concetto di moltitudine, così come insieme di soggettività che scaturiscono dal processo di riproduzione sociale, a quello di popolo e massa come referente dello Stato-nazione. Una prospettiva che taglia trasversalmente i discorsi sull’immigrazione e sull’identità nazionale, che risulta quindi un’entità tendenziale, parziale, storicamente situata in una fase dello sviluppo capitalistico come dispositivo di controllo: cittadini come proprietari o consumatori e Stato- nazione come prodotto dell’organizzazione, capitalistica, del lavoro.

Certo, parlare di Toni Negri ad un pubblico di lettori italiani rimane un’impresa controversa, dove le vicende biografiche dell’uomo si confondono con le vicende storiche dello Stato Italiano e con le intuizioni filosofiche e politiche dell’intellettuale. Ma di ritorno dalla sua conferenza a Bruxelles: “Inventer le Commun”, mi era inevitabile pensare a quanto fosse attuale il suo pensiero in uno “Stato in via di definizione” come quello Lussemburghese, così impegnato a promuovere iniziative sull’identità nazionale, come a tradire il fatto che d’identità nazionale non abbia più senso parlare..

(MP)

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