E’ uno dei maggiori esperti mondiali di medicina delle migrazioni, delle patologie tropicali e della povertà. E’ stato chiamato dal Governo italiano a dirigere uno degli ospedali più grandi d’Europa: il San Camillo –Forlanini di Roma, che conta 5300 dipendenti e si estende su una superifcie più grande di quella della Città del Vaticano. E’ stato più volte denunciato negli Anni ‘80 e inizio Anni ‘90 perchè curava immigrati clandestini in un ospedale pubblico.

 

 

 

Nel suo presidio ospedaliero ha aperto: l’Arena Forlanini, un Festival di Cinema che quest’anno ha avuto un ospite d’eccezione: Woody Allen. Intervista al professor Aldo Morrone, specializzato in dermatologia tropicale verrà in Lussemburgo ospite dell’Istituto Italiano di Cultura, giovedi 11 ottobre 2012( ore 18.30) per una conferenza sulla medicina delle migrazioni (sala BS003, Université du Luxembourg 62a, av. de la Faïancerie).

 

Ha fondato e diretto per molti anni la Struttura Complessa di Medicina Preventiva delle Migrazioni, del Turismo e di Dermatologia Tropicale dell’Istituto San Gallicano (irccs) di Roma. Cosa ci racconta di questa esperienza?

Nel 2006 ho fondato il Centro Istituto Nazionale migrazioni povertà sull’esperienza di un centro che abbiamo portato avanti per oltre trent’anni all’interno del San Gallicano di Roma. Li avevamo creato questa struttura – che Balduzzi, il Ministro della Salute del Governo Monti ora ha stabilizzato- che è un centro di studio, ricerca e assistenza per i migranti e le persone fragili, in condizioni di povertà. In questo momento, continuo ad occuparmene all’interno di una struttura che si occupa di tutti, anche degli italiani. La novità è che mi è stato chiesto di dirigere questo grande ospedale dove riuscire a realizzare quello che avevamo proposto e ipotizzato a San Gallicano: cioè creare una realtà di inclusione e integrazione tra tutte le persone ammalate o a rischio, favorendo l’accesso soprattutto alle persone più deboli. Un esempio: nel nostro Dipartimento di Salute della donna abbiamo ogni anno più di 4000 parti di cui circa la metà da donne straniere.

Con la sua equipe vi occupate di migranti anche fuori dagli ospedali. Ci racconta come?

Un’attività particolare che ho sempre fatto è stato lavorare nei CIE (centri di identificazione ed espulsione, ndr) nei CARA (Centri di accoglienza richiedenti asilo, ndr), a Lampedusa,  in Africa, in Libia, in Tunisia, direttamente nei Paesi da cui i migranti provengono. Poi anche in Etiopia, Eritrea, Gibuti.

Una delle attività che mi è stata chiesta è stata di andare durante la guerra civile in Libia a prendere i feriti e portarli in ospedale. Un’operazione molto importante realizzata in collaborazione con le forze militari di pace italiane e con servizio sanitario nazioanle. Abbiamo trasferito centinaia di feriti. Adesso continua questa attività anche dopo la firma della pace,  perchè c’è tutto il disastro dei feriti di guerra. Tre settimane fa sono stato sia a Tripoli che a Bengasi. La situazione è drammatrica. Ci sono forze contrastanti e quindi, la Libia in questo momento non è proprio un Paese  perfettamente sicuro.

Poi sono stato a Lampedusa su cui abbiamo anche scritto un libro (Lampedusa, porta d’Europa. Un sogno per non morire, ed. Ma. Gi., Collana Medicina transculturale). E’ stata un’esperienza estremamente significativa essendo andato sulle motovedette, in mare aperto per recuperare direttamente i migranti sui barconi e portarli nel porto di Lampedusa.

Il diritto alla salute dei migranti, in Italia, si scontra con il reato di clandestinità. Qual è la sua opinione in merito?

Quando fu fatta quella folle proposta di modifica del comma 5 dell’articolo 35 sel decreto legge Bossi-Fini che avrebbe comportato il rischio di denuncia degli immigrati irregolari nelle nostre strutture pubbliche, ovviamente, mi sono impeganto in una battaglia per contrastare un eventuale approvazione di quella modifica. Abbiamo protestato civilmente, ho presentato le mie osservazioni al gruppo parlamentare della Lega che le aveva proposte, ho lavorato in innumerevoli incontri denunciando che, se fosse stata approvata quella modifica, avremmo corso il rischio di creare la diffusione di malattie infettive e di pratiche clandestine (tra cui l’interruzione volontaria di gravidanza, un mercato parallelo di sanità assolutamente privo di ogni legalità e di ogni sicurezza). Quindi questa battaglia è stata vinta perchè la proposta di modifica è stata abbandonata; creando un grande dolore e un grande danno perchè gli immigrati hanno avuto paura e per un bel po’ di tempo non si sono presentati nelle strutture pubbliche.

Il nostro ospedale invece non ha avuto questa riduzione, anzi, un aumento perchè noi abbiamo lanciato la campagna “ Io non denuncio nessuno” e quindi tutti sapevano che potevano venire da da noi senza nessun rischio. Però è stato una inutile, dolorosa proposta che ha prodotto solo danni senza vantaggi.

Questo ha comportato da parte mia e dei miei collaboratori una battaglia di civiltà e ci siamo autodenunciati per dimostrare che l’articolo 32 della Costituzione italiana indicava che il diritto alla tutela della salute era un diritto dell’individuo e non del cittadino (unico articolo che parla di individuo) ed era anche interesse della collettività.

Quindi, sulla base di questo dettato costituzionale, mi sono rifiutato di non curare le persone in ospedale; questo ha determinato un cambiamento da parte del legislatore. La legge Turco-Napolitano (del 1998) aveva già stabilito che le cure per emergenza ed essenziali dovevano essere applicate agli immigrati privi di permesso di soggiorno.

Non è vero che gli immigrati portano malattie anche se provengono da Paesi con forti endemie per malattie della povertà.

 

Un bilancio di questa sua esperienza trentennale a favore degli “ultimi”?

Dirigo un ospedale con più di 1200 medici, 2000 infermieri, 2000 tra ausiliari e amministrativi ed ho dimostrato che un’esperienza di chi è capace di accogliere le persone e curare le malattie che dovessero avere – quindi persone malate e non utenti, clienti o pazienti e sottolineo l’importanza della persona rispetto all’aggettivo malato- è stata possibile grazie al fatto che il fenomeno migratorio e una realtà dolorosa e che queste persone – che concorrono alla ricchezza del nostro Paese e di tutta l’Europae degli USA – sono una risorsa.

Quindi noi abbiamo percepito, che ancora oggi l’immigrato irregolare, il senza fissa dimora, la persona tossicodipendente, la propstituta, la persona disoccupata, i pensionati a reddito minimo come una grande risorsa verso cui rivolgerele nostre attenzioni. Perchè essi sono al centro del servizio sanitario nazionale pubblico e universale e non la logica del profitto o degli interessi. Sono una persona privilegiata. Ho scelto la parte migliore, io, ho scelto chi non conta nulla. La parte migliore della vita.

 

Tra i molti reparti del suo ospedale ce n’è uno che è considerato un fiore all’occhiello in tutt’Italia.

Quando sono arrivato in questo enorme, grandissimo ospedale la prima cosa che mi è stata chiesta è stata di aprire un reparto per malati in coma vigile ovvero l’Unità di cure residenziali intensive (Ucri). Sono 10 posti letto per persone che hanno subito ictus o incidenti che si riescono a portare fuori dal coma, che possono avere una vita autonoma ma solo vegetale.

E’ venuto anche il Presidente della Repubblica Giorgio napolitano a visitare il reparto (marzo 2011, ndr). Apparentemente sono soggetti che sembra non abbiano reazioni ad una carezza, ad uno sguardo, al dialogo, ad un film o alla musica. La cosa straordinaria che abbiamo avuto quest’ anno è che siamo riusciti a mandare a casa più di 6 persone domiciliandole. Stavano già talmente meglio, parzialmente uscite dal coma che hanno potuto essere trasferite in casa, in famiglia dove la vita cambia perchè vivono in carrozzella, in condizioni drammatiche, rispondendo però agli stimoli. Per una famiglia avere la possibilità di avere in casa la persona cara è una sorta di grande miracolo. Io ho vissuto l’esperienza di Eluana Englaro e sono cosa significa occuparsi di queste persone. Ecco perchè dicevo: sono un privilegiato, perchè è un reparto ad alta intensità di cure. Ci sono neurologi, anestesisti, etc Queste persone devono essere assaggiate continuamente, bisogna parlar con loro, accarezzarle, cogliere i segnali di una risposta eventuale. Ed è una esperienza, soprattutto per i familiari e per chi ci lavora, di una civiltà, di un’attenzione e di un’emotività straordinaria. E’ veramente un privilegio che la vita ci dà.

 

Paola Cairo

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