“L’avventura del restare”: intervista a Elio Pecora
Ospite italiano all’edizione 2011 del Printemps des Poètes (1-3 aprile) è uno dei poeti italiani tra i più raffinati e tenaci, una di quelle voci della modernità che davvero hanno segnato il Novecento e questi ultimi anni con proposte di cambiamento e originalità formale.
Lei ha pubblicato il suo primo libro, “La chiave di vetro” (Bologna, Cappelli), nel 1970. Cosa stava accadendo in quegli anni nel modo di scrivere poesia?
Ho scritto quel libro durante un soggiorno in Germania, a Tunzerberg fra il gennaio e il luglio del 1968. Fu quella la mia personale e definitiva rivoluzione, intanto che adolescenti e giovani europei si rivoltavano. In quel libro confluirono le mie esperienze, il mio bisogno di fare i conti anzitutto con me stesso, con la società e con il mondo in cui avevo vissuto e vivevo, le mie molte e onnivore letture che, dopo il tanto letto fin dalla prima adolescenza dei classici e dei moderni, allora si muovevano fra Virginia Wolf e Max Frisch, Gombrovicz e Butor. Non m’attraeva l’avanguardia, piuttosto lo sperimento. Quel libro nacque come prosimetro (componimento misto di prosa e versi che si struttura in forma di romanzo, ndr) e ancora oggi riconosco che vi si palesarono i miei assilli e le mie ossessioni, il mio bisogno di interrogazioni illimitate e il rifiuto della negazione così dominante nella cultura e nella letteratura novecentesca. Solo dopo ho saputo quanto fossi vicino a Sandro Penna e al Saba della “serena disperazione”. La vera rivoluzione di quegli anni, toccò piuttosto la vita sociale delle donne, i costumi sessuali, il gioco delle nuove apparenze. Tuttora, nella società italiana, vediamo a quanto poco sia valso davvero quel rivoltamento per una vera interiore crescita, l’unica che rende vivi e presenti fuori dei facili commerci e delle stolide obbedienze. Vorrei precisare che ho vissuto intensamente nella società romana di quegli anni e di essermi visto e di essere stato visto – accusato di alterezza, recentemente solo di fierezza – ben più libero e aperto dei tanti conclamati rivoluzionari.
In Italia, oggi, assistiamo ad un proliferare senza precedenti di case editrici che sfornano poeti senza soluzione di continuità. Come spiega questa iperproduttività?
Ancora l’effetto delle false liberazioni. Un numero più che considerevole di persone scrive versi e s’adopera per pubblicarli. Dietro queste vanità e pretese si sono moltiplicati i piccoli affaristi. E’ solo vanità o, in un mondo sommerso da un chiacchierume in cui nessuno crede a nessuno, per molti conta la speranza che il proprio scritto riesca a durare nel tempo? La poesia resta un bene che si raggiunge di rado, anche dagli stessi conclamati poeti, e viene dal talento, ma anche da tanto lavorio sulla necessità ed esattezza della parola e su quelle verità che ininterrottamente ci tocca interrogare e cercare. Sicuramente l’eccesso di libri e librini di versi genera una notevole confusione ma ancora una volta il gusto, che viene dalla frequentazione con testi di qualità, ristabilisce i valori. Se in tanti scrivono la poesia non è morta, solo che va mostrandosi a chi sappia riconoscerla.
In questo incredibile paradosso, secondo lei, chi paga il prezzo più alto?
Non sono per le lamentele dei poeti, che misurano l’attenzione dei lettori con il metro delle udienze televisive e dei romanzi del passatempo. Il pubblico di Montale e di Saba era anche più sparuto del pubblico che oggi s’avvicina alla poesia di qualche peso. Prima del Nobel a Montale e dell’assassinio di Pasolini gli italiani guardavano ai poeti come a creature chiuse nel marmo delle ville comunali e nei componimenti delle antologie scolastiche. Perché il pubblico della poesia cresca, anzitutto fra quelli che scrivono versi ma si guardano bene dal leggere, occorre che salga il livello d’istruzione, la finezza del guardare. Siamo in anni di decrescita invece. Da parte mia non dispero. Incontro annualmente ragazzi e bambini nelle scuole e in molti di loro trovo non solo attenzione, ma anche l’attesa di una misura diversa dell’essere e del capire. Seguitiamo.
Lei ha scritto dei meravigliosi libri per bambini: con quali motivazioni ha deciso di intraprendere questa avventura?
Scrivere con i bambini significa in qualche modo servirsi della loro freschezza di immagini e di sentimenti. Ma i bambini debbono piuttosto essere avvicinati dalla poesia che è lì ad attenderli. Vivono anni nei quali bisognano di modelli. Che scrivano le loro piccole poesie non va al di là di un gioco, di porte che vanno aprendosi. Ma va anzitutto dato ai bambini il patrimonio palpitante della loro lingua e gli va mostrato come quel patrimonio sia stato e possa essere speso al meglio. Bastano piccole poesie scelte. L’incanto è sicuro, la maestria si scioglie nella vivezza e nella partecipazione. Non credo che esista una letteratura limitata all’infanzia. Aborro il pigolio che molti adulti riservano ai bambini. Il bambino ha l’intelligenza più vigile e aperta di cui un uomo o una donna potranno mai godere nel resto della vita. E’ una questione scientificamente provata.
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Biagio Lieti