Tenutosi lo scorso fine settimana(15-17 novembre) l’appuntamento annuale di raccolta fondi, i cui profitti sono devoluti a progetti umanitari in ogni angolo del mondo, è da sempre considerato come una festa multiculturale prenatalizia che attira, ogni anno, migliaia di visitatori nei padiglioni del LuxExpo The Box nel quartiere Kirchberg della capitale del Granducato. Quest’anno però, a causa della situazione geopolitica internazionale, la presenza dello stand di Israele è stata considerata da molti residenti come ingiusta se confrontata alla mancanza dello stand rappresentante la Palestina. Nonostante il “Collectives for Palestine”, la piattaforma di associazioni nata per difendere il diritto all’autodeterminazione e lavorare insieme per la pace, l’uguaglianza e la giustizia – avesse già espresso le sua preoccupazioni per la presenza dello stand israeliano e per il rafforzamento delle misure di sicurezza che quest’anno sono state senza precedenti, tuttavia sono state rilevate aggressioni personali ed episodi di discriminazione; ad alcuni visitatori filopalestinesi è stato negato l’ingresso ed altri, che indossavano la kefiah, sono potuti entrare solo scortati dal personale di sicurezza.
L’italiana Martina Patone ci ha inviato la sua testimonianza.
Lunedì mattina, i giornali parlavano del Bazar Internazionale come di un evento festoso e spensierato. Descrivevano la folla, i loro diversi accenti e il suono delle empanadas che sfrigolavano nelle friggitrice. I resoconti mettevano in evidenza i fondi raccolti, perché, dopotutto, in un evento dove tutti i proventi sono destinati a organizzazioni benefiche in tutto il mondo, ciò che conta davvero sono i soldi raccolti.
Si accennava anche al fatto che alcune persone erano in piedi fuori dal LuxExpo a Lussemburgo città, con bandiere palestinesi e cartelli scritti a mano. Fermavano i passanti e raccontavano storie che però, per qualche motivo, non sono sembrate abbastanza rilevanti da essere raccontate.
Al Bazar ci sono più di 60 stand, ognuno rappresentante di un Paese diverso. Dopo un anno di assenza per motivi di sicurezza, quest’anno è tornato lo stand di Israele. È di un bianco luminoso, con la scritta “Israel” in azzurro, in alto sul soffitto, ripetuta sui quattro lati. Qualcuno lo definirà “uno dei più visibili”. A poca distanza si trova lo stand del Libano, composto da tavoli rivestiti con tovaglie e una grande bandiera con il cedro verde appesa al soffitto. Entrambi servono hummus.
Allo stand israeliano, tra il vino delle Alture del Golan e le creme viso dei minerali del Mar Morto, un uomo prende una mappa di Israele. Sulla cartina ci sono due regioni chiamate come nella Bibbia: “Giudea” e “Samaria”. Se anche il governo israeliano ancora oggi usi questi termini per enfatizzarne l’importanza storica e religiosa per il popolo ebraico, e legittimarne il controllo, queste sono regioni che, secondo il diritto internazionale e la maggioranza della comunità internazionale, costituiscono la Cisgiordania, un territorio palestinese occupato da Israele sin dalla Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Ma questo non viene detto. L’uomo prende la mappa, la mette in tasca e si dirige verso le ceramiche giapponesi.
Nello stand israeliano, le persone indossano t-shirt bianche, con una stella di David stampata sopra e lo slogan “Stand with Israel”, un gioco di parole che nemmeno prova a nascondere la loro posizione. Una visitatrice, passando, lascia su uno dei tavoli un volantino con una citazione del presidente israeliano Netanyahu che dice: “Sto dicendo al popolo di Gaza: uscite da lì ora, perché stiamo per agire ovunque con tutta la nostra forza”. Quel volantino, con un quasi tempismo perfetto, si posa esattamente sotto gli occhi della donna dello stand che sta raccogliendo quello che è rimasto di una pita con hummus. Non lo gradisce. Insegue la visitatrice, la spinge e strappa l’adesivo “Free Palestine” che aveva attaccato al suo maglione. Le due vengono separate e si allontanano. A detta della rappresentante dello stand di Israele non si può fare politica nel Bazar – almeno non quella che contrasta la sua.
Quando agli organizzatori del Bazar vengono chieste spiegazioni riguardo la presenza dello stand israeliano, rispondono che la scelta degli stand non dipende dai governi dei Paesi e ribadiscono la neutralità politica dell’evento.
Ma la neutralità può facilmente essere infranta dal peso degli eventi storici di oggi. La stessa presenza dello stand israeliano, mentre la Palestina è stata lasciata senza rappresentanza, parla di politica. È una scelta, fatta consapevolmente o inconsapevolmente, che porta conseguenze, specialmente quando le linee tra politica e cultura si sfumano.
È stato detto che uno stand palestinese non avrebbe potuto fornire abbastanza ritorni, ritorni essenziali per assicurare il successo dell’evento, ma ciò non può giustificare tale esclusione. Nel nome della neutralità, l’associazione del Bazar avrebbe potuto fornire supporto aggiuntivo a quegli Stati che avevano espresso interesse a partecipare ma faticavano nelle risorse, piuttosto che portare avanti quella narrazione per cui solo quelli con rappresentazioni più forti e ricche meritano di essere inclusi. La vera neutralità richiede uno sforzo attivo.
La giornata trascorre senza particolari interruzioni. Dentro si continua a spendere in nome della carità, fuori ci si scambiano sorrisi timidi di solidarietà. Quasi alla chiusura, quelli che stavano fuori provano a entrare in gruppo, ma vengono respinti. Le loro keffiyeh sono considerate troppo politiche, la loro presenza troppo rischiosa. Alla fine viene deciso che il gruppo può entrare solo se scortato dalla polizia, per garantire che l’evento prosegua senza domande scomode sull’origine dei prodotti venduti – prodotti che potrebbero provenire da insediamenti illegali –, o sulla legittimità della presenza di un Paese che, da oltre un anno, bombarda civili privi di un luogo sicuro dove rifugiarsi e che, all’interno dell’evento, perpetua una narrazione di colonialismo e occupazione.
La protesta è permessa fuori, senza cori e a distanza dall’ingresso principale, con misure di sicurezza aggiuntive. All’interno si deve fare beneficenza, a qualsiasi costo, anche rischiando di cadere in una forma di complicità silenziosa.
Qualcuno entra, qualcuno va via. L’organizzazione riesce nel suo intento di mantenere un’atmosfera tranquilla e rilassata che non interrompe la raccolta fondi. E’ un successo. Beneficenza è stata fatta, e per una giusta causa, le coscienze sono rassicurate, e anche il silenzio, quello che lascia intatta l’oppressione, alimentando sofferenza e perpetuando ingiustizia, è stato raggiunto.
Martina Patone