Ogni settimana una poetessa, un poeta, un profilo, una citazione sul suo intendere il modo di costruire le parole, la sua poesia
Sibilla Aleramo
E’ il nome d’arte di Marta Felicina “Rina” Faccio. L’Aleramo, nata ad Alessandria nel 1867 e morta a Roma nel 1960, rappresenta oltre alla sua vocazione poetica una delle principale ispiratrici, autentica “Wegbereiterin”, del movimento femminista che si esprime in Italia dalla fine del XIX secolo. Dopo un’adolescenza segnata da una violenza cui fa seguito un infelice matrimonio riparatore, esprime da una piccola cittadina delle Marche la forte aspirazione all’affermazione di una vita libera e consapevole battendosi contro le convenzioni dell’Italia patriarcale dell’epoca che vorrebbero confinare il destino delle donne in una condizione ipocrita di sacrifico e di subordinazione al ruolo predominante del pater familias. Lo fa innanzi tutto con l’impegno giornalistico e politico fondando i primi nuclei dei movimenti femminili in Italia centrale ed entrando subito in contatto con Aurelio Saffi e con Giorgina Craufurd Saffi con cui partecipa a numerose manifestazioni per il diritto di voto e la lotta alla prostituzione femminile. Passata a Roma dal 1899 collabora con un gruppo di intellettuali progressisti – da Matilde Serao a Maria Montessori a Ada Negri a Giovanni Cena e Paolo Mantegazza – e assume la direzione del settimanale socialista “L’Italia femminile”. Nel 1906 il suo romanzo autobiografico Una Donna, in cui si firma su suggerimento di Giovanni Cena come Sibilla Aleramo, le assicura una rinomanza internazionale. Vi narra le vicende della sua vita dall’infanzia fino alla sofferta decisione di abbondare marito e figlio. Seguono otto anni di impegno sociale nell’Agro Pontino, allora zona fortemente malarica, nell’educazione serale dei contadini, impegno condiviso con Giovanni Cena e Angelo e Maria Celli.
Dopo aver avuto durante la prima guerra mondiale anche un tormentato rapporto con il poeta Dino Campana giunge alla poesia nella maturità con la prima raccolta Momenti. Altre ne seguiranno sino all’ultima Luci della mia sera che Sergio Solmi cura nel 1956. Nelle sue poesie si intrecciano felicemente la sua vena intimistica con la sua passione sociale. Iscritta al PCI nel 1945 mantiene un alto impegno politico collaborando con l’Unità sino alla fine della sua lunga vita che si conclude a Roma nel 1960. Il figlio Walter le sarà accanto, nonostante il loro sempre difficile rapporto.
Loris Jacin
“Parlare della propria poesia mi sembra impossibile quasi come sarebbe parlare della propria saggezza – dato che la si possedesse. Che cosa ne sa il saggio, di come è giunto a quell’apice della conoscenza che è tutt’uno con la conclusione della vita? Sinché egli ha vissuto, ha avuto delle ore, attraverso gli anni, magari anche nella prima fanciullezza, in cui il suo spirito ha toccato la perfezione, si è sentito cioè in armonia assoluta con l’universo, creatura senza nome né età, paga di respirare sotto il silenzioso cielo…Non era la saggezza, e nondimeno è stato in tali ore, rarissime, di pura luce, che la saggezza andava via via foggiandosi senza che la creatura ne avesse coscienza: in un continuo ricominciare di esperienze, in un succedersi senza tregua di passione e di meditazione. Niun giorno mai era vano, questo solamente può dire il saggio al termine del cammino, quando per una estrema volta attinge il lampo di grazia e di riconoscenza verso il cosmo… Orbene, non è questa la stessa condizione del poeta? Il poeta può affermare unicamente che nulla gli è segreto quanto la genesi della sua opera. Ricorda di aver scritto certi versi durante un tempo di amore, e certi altri in notti di angoscia, ricorda il viso amato e il motivo disperato, ma non potrà mai spiegare a e stesso perché in situazioni identiche gli siano sgorgate liriche quasi felici e liriche di nessun valore…”. ( da Gioie d’occasione)
POTENZA IN ME D’AMORE
Potenza in me d’amore
nelle stagioni esercitata strenua
riemerge talora nella memoria un autunno remoto
che raggiunto invero il tuo segno credetti
credetti esistesse veramente
quegli che tutta m’ accogliesse
in alti uragani di gioia
poggiava grande la fronte sul mio petto
le sue dure storie mi narrava
le mie tante fremendo ascoltava
navigavamo sur un lago fra i monti
e caro sarebbe stato profondare avvinti
fra quelle come riverse in loro cheto sonno
ma in cuore un’altra acqua tremava
la ove Aretusa giace
verde nell’isola giusta dei miti
l’isola che era la sua
e insieme mai vi andammo
oh potenza in me d’amore
raggiunto non era il tuo segno
neppure quella voltà né con altri dopo mai
ma in me tuttavia tu non perdevi
ingigantivi anzi più sempre
sinché bianco il capo e bianco il volto
vanito il color oro e quel delle rose
ora so alfine a chi era rivolta
tu potenza in me d’amore
alla intera gente umana rivolta eri
per i dolori e per gli errori suoi
immenso stuolo sotto l’immensa volta di stelle
umana gente che sì di rado conosce gioie
sfiora laghi con cime riverse in cheto sonno
assentisce alla Terra con alta passione
poi taluno ricade e solitario dispera
taluno invece sua fede mai non smentisce
in un domani giusto del mondo
domani senza mai più eccidi
mai più guerra né odio né fame
né fame di pane né fame di dominio
oh giusto e fraterno mondo
oh potenza in me d’amore
ora so alfine a chi eri rivolta
( da Luci della mia sera)