Da un anno la fuga dall’Afghanistan degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali ha avuto la conseguenza di fare precipitare la condizione delle donne afghane, attualmente  allontanate dalle scuole a partire dai 12 anni – caso unico fra i paesi musulmani –  e obbligate a dipendere per quasi ogni apparizione pubblica compresi gli spostamenti dalla presenza di un componente maschile della famiglia.  Con ogni violazione comportamentale che rilevata dal ripristinato Ministero talebano del Vizio e della Virtù comporta delle sanzioni contro le famiglie

Le donne afghane sono vittime di uno dei tanti dogmi dell’ideologia dei talebani oggi al potere, la totale opposizione al ruolo sociale delle donne, in un contesto in cui i dettami della scuola tradizionalista (madrasa) di Deoband,  da cui sono  formati dal 1867 i talebani, sono anche profondamente influenzati dalla dottrina wahhabita saudita, veicolata dalla presenza nel Paese dalla rete di al Qaida e dalla figura di Osama Bin Laden, prima attivo nella lotta anti-sovietica e poi nella preparazione degli attentati contro gli interesse angloamericani a partire dal 1992 e, infine, dalla ribellione alla presenza armata americana in Arabia saudita dopo la prima guerra del Golfo.

Eppure la liberazione delle donne afghane era già un fatto compiuto un secolo fa,  fra il 1919 e il 1929, grazie alle riforme del re Amanullah, che aderiva al modernismo dei Kamal Atatu”rk, in Turchia, dei Pahlavi in Iran. Un secolo dopo la condizione delle donne afghane  è precipitata sino alla situazione attuale.

Possiamo cercare di tentare una descrizione il più possibile onesta delle cause prossime e remote.

L’Afghanistan tradizionale che il viaggiatore incontrava prima del passaggio del Paese alla Repubblica comunista di Nur Mohammad Taraki nel 1978, seguita della invasione sovietica del 1979 e dalla reazione antisovietica successiva, era un Paese in pace in cui convivevano due grandi società. La società rurale, vivente nelle montagne e negli altopiani, nel sud pashtun o nel nord turanico, luogo della tradizione e della permanenza (atraf), in cui viveva l’80% della popolazione praticante un islam tradizionale in prevalenza sunnita di scuola hanafita, in cui erano importanti le influenze sufi di almeno tre importanti confraternite. Dove si incontrava un islam tradizionale ma non il disegno militante islamista che si formerà in seguito a partire dagli Anni ’70 sui campus universitari influenzati dal pensiero dei fratelli musulmani egiziani.

Foto: panecirco.com

Al mondo delle campagne faceva contrasto il mondo delle città, fucina del modernismo e dell’innovazione, dove il comportamento della borghesia urbana era del tutto occidentalizzato e dove, il comportamento vestimentario aveva lasciato il posto ai Borsalino o alle teste senza turbante, i sar luchak, come erano ironicamente chiamati i cittadini nelle campagne, le teste nude.

Ma si deve fare una constatazione fondamentale: sino al 1978 i due mondi tanto diversi coesistevano in pace. Sino a che delle contrapposte influenze esterne hanno contribuito a  modificare in maniera insostenibile questa situazione.

Innanzitutto, la presenza sovietica ha destabilizzato le strutture e gli equilibri faticosi dello stato che si barcamenava con l’intelligenza del re Zaher fra i due opposti sotto-insiemi,  imponendo di colpo una totale centralizzazione e uno sconvolgimento dei costumi considerato insostenibile dalla varietà del mondo etnico tradizionale afghano. Poi, l’opposizione al comunismo afghano sia prossima sia remota, sia saudo-pakistana che americana, ha rapidamente convertito in funzione anti-sovietica la opposizione afghana in islamista, favorendo prima l’avvento dei gruppi di mujahidin più radicali, definiti dal presidente Reagan dei freedom fighters e poi dei talebani, considerati dal 1994 il nuovo strumento pakistano del controllo politico dell’Afghanistan. L’islamismo afghano è stato letto come compagno di lotta contro l’Unione Sovietica ed incoraggiato in ogni modo in forme pubbliche e dal 1989 in forma di una guerra nascosta contro il regime dell’ultimo presidente afghano comunista Mohammad Najibullah. E anche quanto c’era di buono nella Costituzione da lui introdotta nel 1987 sotto forma di pluralismo e conferma del ruolo professionale delle donne in Afghanistan con il “consiglio delle donne  dell’Afghanistan”, costituito da quasi 110.000 donne, è stato condannato all’oblio della storia. E non serve neppure ricordare che il 93% degli Afghani nel 2008 lo ricordavano come il miglior governo mai avuto dal Paese.

E oggi dopo vent’anni di occupazione occidentale del Paese dal 2001, con l’obiettivo di debellare la rete di al-Qaida, di interventi armati NATO e di sostegno occidentale umanitario riservato di fatto alla bolla costituita da pochi centri urbani si è consegnato  per cinismo politico con la fuga dell’agosto di un anno fa la condizione delle donne all’oppressione talibana. Se esiste una definitiva responsabilità interna afghana di questa situazione, è indubbio che molte scelte esterne hanno favorito questa tragica realtà. Pensando ai quarant’anni di interventi armati  sia russi che occidentali viene in mente soltanto il titolo di un film d’André Cayatte del 1952 “On est tous des assassins”. Siamo stati tutti degli assassini della speranza delle donne afghane. Anche se facciamo finta di ignorarlo.

Carlo degli Abbati

Fondatore della ONG lussemburghese ALA (Association Luxembourgeoise pour l’Afghanistan) è stato responsabile della distribuzione dell’aiuto alimentare nella C.E.H.A.(Coordination Européenne Humanitaire pour l’Afghanistan)

Foto: KALAKAN, AFGHANISTAN – FEBRUARY 23 2003: Afghan women wait in line to be treated at the Kalakhan health clinic February 23,2003 in Kalakan, Afghanistan. (Photo by Paula Bronstein/Getty Images)

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