Dopo due anni di sospensione il rito del Venerdì Santo è tornato all’Anfiteatro Flavio.
“Padre misericordioso, porta gli avversari a stringersi la mano, perché gustino il perdono reciproco. Disarma la mano alzata del fratello contro il fratello, perché dove c’è l’odio fiorisca la concordia”.
Nel silenzio quasi irreale delle oltre diecimila persone, tornate dopo due anni al Colosseo per ricordare la passione di Cristo, e nel buio della notte romana illuminato solo dalle luci della Croce e dalla fiaccole dei fedeli, la preghiera di dolore di Papa Francesco, deflagra come se fosse un grido, anche se Lui lo sussurra quasi sottovoce. Sussurra, Francesco, come parlasse all’orecchio di chi ha imbracciato le armi, di chi, in nome di chissà quale autorità, ha iniziato e sta continuando una guerra che miete ogni giorno vittime innocenti. Sussurra, Francesco, a chi spara pensando di avere ragione e a chi spara perché è con le armi che bisogna resistere. Sussurra, Francesco, anche a tutti noi che assistiamo impotenti, con i potenti, all’ennesima sconfitta dell’umanità.
Papa Francesco rimane per tutto il tempo a capo chino e mani giunte, in devota orazione. Il suo cappotto bianco, illuminato dall’enorme crocifisso allestito sulla collina della Basilica di Massenzio, sembra irrorare una luce, che in questo momento, appare “necessaria”. La sua è la luce di Pace, che alla XIII stazione, quella che drammaticamente ricorda la morte di Gesù, consente a Irina ucraina e Albina russa, due donne, due amiche al servizio degli altri, di condividere la Croce. Qui la meditazione è la più semplice (modificata all’ultimo momento dopo le polemiche diplomatiche): “Di fronte alla morte, il silenzio è più eloquente delle parole”. Il Santo Padre non ha arretrato di un passo, nonostante per qualcuno il messaggio fosse a priori inaccettabile e inascoltabile e che, ahimè, forse rimarrà inascoltato: ha fortemente voluto questa immagine di unità tra popoli in guerra, che è il ritratto più semplice ed efficace per urlare al mondo che la guerra fa schifo!
Tutte le meditazioni delle stazioni sono state scritte da famiglie che hanno raccontato al mondo le proprie esperienze e i propri combattimenti quotidiani, giovani sposi, anziani senza figli, genitori con figli con disabilità, una famiglia con un genitore malato, una donna che ha perso il marito e una figlia, due genitori che hanno un figlio consacrato. La famiglia di migranti, alla stazione conclusiva ci ha regalato questa riflessione: “Siamo qui dopo viaggi in cui abbiamo visto morire donne e bambini, amici, fratelli e sorelle. Siamo qui, sopravvissuti. Percepiti come un peso. Noi che a casa nostra eravamo importanti, qui siamo numeri, categorie, semplificazioni. Eppure siamo molto di più che immigrati. Siamo persone.”
Siamo persone, è vero…e non solo a Pasqua!
Gilda Luzzi