Mi aggiro quest’anno per la prima volta dietro le quinte del Salone, avendo usufruito di un ingresso speciale espositore. Il pubblico è già in coda fuori delle biglietterie, gli editori si muovono silenziosi e laboriosi dietro i propri stand, c’è uno strano brusio nell’aria che prelude all’esplosione di voci e colori che invaderà gli spazi a breve. I libri assopiti sugli stand si risvegliano al sollevarsi del telone che li ha protetti per la notte. Ci siamo quasi, ecco i primi visitatori.
Per la prima volta dalla sua creazione nel 1988 il Salone internazionale del libro di Torino si presenta al pubblico reduce da una lotta intestina che gli è costata la lacerazione con Milano. Internazionale dunque sì, ma non espressione di un’identità nazionale. All’insegna di “Oltre il confine” il Salone ha aperto le porte del Lingotto dal 18 al 22 maggio 2017 per mostrarsi in tutto il suo consueto splendore, celando abilmente le ferite riportate dallo strappo subito dalla capitale lombarda. Sotto la direzione editoriale del premio Strega Nicola Lagioia, il Salone prevedeva quest’anno lo scavalcare di muri e barriere. Dell’editoria, in primo luogo, dando vita alla prima Fiera europea della Musica (F.E.M.) con case discografiche e editori musicali; dei confini letterari nazionali, con la sezione “Another side of America”, Paese ospite di quest’anno; della lingua, dando sempre maggiore spazio e rilievo a scrittori italofoni di varia provenienza. Ma anche superando le barriere spazio-temporali con un ampio Salone off che ha visto protagonista gran parte del territorio piemontese. Il riferimento alla musica unitamente alla sezione dedicata all’altra faccia dell’America non può non farci pensare al destinatario ultimo del premio Nobel per la letteratura.
Ci soffermiamo a riflettere sul significato di letteratura, se parole e musica possano essere considerate letteratura, se le canzoni di un seppur tanto amato cantante folk possano essere messe alla stregua di un Pirandello. Eppure probabilmente superare i confini significa anche questo, accettare che accanto alle canoniche definizioni del nostro mondo di riferimento convivano oggi altre frontiere non necessariamente coincidenti. Così si mescolano le arti, la visiva si fa parola, la scritta si fa musica. Non potevano mancare anche eventi dedicati al caso editoriale Elena Ferrante che ci offre ulteriori spunti di riflessione nella stessa direzione.
Che diritto ha uno scrittore di nascondersi al proprio pubblico, che diritto ha il lettore di pretendere di conoscere il volto dello scrittore? Il caso Elena Ferrante è stata unicamente una trovata commerciale oppure un successo inevitabile, annunciato, contro ogni aspettativa?
Quesiti cui ognuno può trovare una propria risposta. La mia personale va nella direzione del ruolo dello scrittore o, in una visione più ampia, dell’artista e della propria funzione sociale: fare arte significa assumersi un impegno nei confronti del fruitore, della società, del pubblico che si rappresenta e cui ci si rivolge, della propria cultura e delle culture che, consapevole o meno, si coinvolgeranno. Negare l’accesso alla propria identità, sia pure un’identità puramente pubblica che non coinvolga la sfera privata e che rispetti i limiti che l’individualità dell’artista vuole imporre, significa sottrarsi al proprio ruolo e, al contempo, far leva sulla naturale curiosità umana che, da sola, svolgerà il compito di cassa di risonanza. Sarebbe potuta essere considerata un’azione anticommerciale, come alcuni sostengono, nel caso in cui la penna, o le penne, che danno voce a questo nome fossero state pubblicate da una piccola casa editrice, una della miriade di micro-realtà che popolano il variegato e coraggioso mondo editoriale italiano. Trattandosi di un colosso come le Edizioni e/o si stenta a credere che tutto sia avvenuto per puro caso, laddove esiste anche un sito elenaferrante.com baluardo incontestabile della massima visibilità contemporanea.
Giovanna Pandolfelli