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Un parterre di regine dello sport per parlare di diritti, tutele e futuro dello sport italiano.

Nessuna disciplina sportiva femminile è qualificata come professionale. Nessuna tutela sanitaria, previdenziale, assicurativa, retributiva adeguata all’effettiva professionalità del lavoro svolto. Premi riconosciuti alle atlete circa 50% più bassi di quelli degli uomini. Nessun rappresentante femminile al Coni, nessun presidente federale su 45 Federazioni.

Parlano i numeri, ma ancora di più parlano i volti emozionati e determinati insieme mentre raccontano le loro esperienze nel primo Meeting Nazionale dello Sport Femminile che si è tenuto a Roma sabato 26 settembre. Storie di donne, di atlete, di campionesse che a diversi livelli e in vari sport  hanno dovuto e devono sperimentare la discriminazione di genere.

Organizzato da Assist-Associazione Nazionale Atlete insieme al comitato promotore composto dai principali sindacati italiani degli atleti, Associazione Italiana Calciatori A.I.C., Giocatori Italiani Basket Associati G.I.B.A., Associazione Italiana Pallavolisti A.I.P.A.V., Associazione Italiana Rugbisti A.I.R., Associazione Italiana Giocatori di Pallanuoto A.G.P., Associazione Italiana Allenatori di Calcio A.I.A.C., e con il patrocinio del Senato della Repubblica l’evento ha richiamato grandi personalità del mondo dello sport mentre, c’è da sottolinearlo, non era presente neppure un rappresentante del Coni.

“La vita di uno sportivo è fatta di rinunce e io ho scelto di rinunciare – dice con voce rotta dall’emozione Tania Di Mario, oro olimpico ad Atene con il Setterosa, 327 volte nazionale, 13 scudetti – ma molte volte ho dovuto rinunciare, come nell’avere un figlio, e quando attaccherò la calottina al chiodo dovrò ricominciare da zero”. La stessa amara denuncia di Lavinia Santucci,  dieci anni di serie A nel basket: “Sapete quali sono le cause di rottura di un contratto con le nostre società? Se vai in carcere o se rimani incinta…” che non è esattamente la stessa cosa!

E a proposito di contratti discriminatori colpisce il racconto, inedito, di Manu Benelli, campionessa di pallavolo, 325 volte azzurra, 6 coppe Italia, 2 coppe Campioni, 11 scudetti di fila in bacheca che in qualità di tecnico ha dovuto accettare la clausola per cui “in caso avessi dato fastidio alle mie giocatrici sarei stata allontanata. Una clausola – continua – che mi dispiace aver accettato e che è figlia di una mentalità omofoba, e poi non dobbiamo dimenticare che spesso all’allenatore che ci prova con qualche sua giocatrice gli si dà pure una pacca sulla spalla”.

Elisa Trecastagne, arbitro e atleta diversamente abile rapisce la platea con i suoi racconti “sul campo”, di un’altra forma di discriminazione, di come il rispetto ricevuto dagli atleti si scontri spesso con la maleducazione e la derisione che arrivano dagli spalti quando si percepiscono frasi che feriscono come “oggi abbiamo l’arbitro zoppo”. Ma il suo incitamento finale, pieno di entusiasmo, di orgoglio e di speranza “Siamo tutti uguali e allora non dobbiamo mollare e non molliano!” è uno stimolo forte ad andare avanti, nonostante tutto e tutti.

“E’ giusto battagliare per qualcosa che dovrebbe essere naturale” – afferma decisa dall’alto della sua esperienza Josefa Idem – 39 medaglie tra Olimpiadi, Europei e Mondiali, aspetto sostenuto anche da Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato della Repubblica che ha affermato: “In Italia c’è un vergognoso ritardo normativo e culturale”, mentre Luisa Rizzitelli, presidente di Assist ha ricordato che “si tratta di una battaglia di diritti e non di privilegi, prima del professionismo c’è il rispetto”.

E’ una battaglia di civiltà, che deve passare attraverso norme che non devono essere frammentarie, appannaggio di pochi uomini o poche donne illuminati nello sport, ma devono essere valide per tutti affinché il nostro Paese si allinei a quelli europei che sono molto avanti. Le atlete italiane, le donne italiane non possono davvero attendere oltre.

 Gilda Luzzi

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