È un incontro con un’Italia nostalgica quello del 1° aprile in Lussemburgo: un viaggio tra i luoghi abbandonati, ma ancora vivi nella memoria. L’appuntamento per il Mese europeo della Fotografia è con Silvia Camporesi, in mostra con Atlas Italiae fino al 26 aprile presso l’Abbaye de Neumünster.
Gli espatriati italiani in Lussemburgo conoscono bene le sensazioni e le emozioni che troviamo nelle opere della Camporesi. Abbandonare un luogo per bisogno e per necessità, ha un sapore tristemente amaro e cinicamente acido che torna in bocca ogni qualvolta che un pezzo del nostro Paese viene cancellato. A partire dal secondo dopoguerra, in Italia l’urbanizzazione e lo sviluppo economico hanno creato dei veri e propri «paesi fantasma»: sono 5838 di cui 2831 rischiano di scomparire definitivamente. Questo fenomeno interessa molto il Centro-Sud e le zone appenniniche: paesi e piccoli borghi che sono la memoria storica di un’Italia che non c’è più.
Per questa ragione il ritorno è, ormai, solo un viaggio della memoria che scopre come il mutamento culturale e il progressivo abbandono, stiano mettendo in ginocchio un’ Italia impoverita e colpevole di non essere al passo con i tempi. Un’Italia che sta dimenticando il suo tempo e sta trascurando la sua storia.
L’invito della Camporesi è un cammino emotivo e poetico senza alcuna pretesa di oggettività o di esaustività: una riconnessione fotografica sulle tracce di un’italianità perduta o che si va perdendo. L’abbandono è il soggetto figurativo di questa mostra che non ha uno scopo educativo o finalità documentaristica, ma è narrazione sulla “cristallizzazione del tempo”, all’interno di alcuni paesi delle venti regioni italiane. Alla base vi è una lunga ricerca artistica che vuole preservare la storia di queste piccole realtà abbandonate.
Silvia Camporesi non fotografa ruderi o strutture in disuso, ma dopo una lunga ed attenta ricerca attraverso fonti dirette ed indirette – grazie anche alla collaborazione di giovani fotografi – ha iniziato il viaggio della memoria. Lo scopo è curativo, perché questa mappa ideale dell’Italia che sta svanendo è catturata e fissata su immagini in bianco e nero e, successivamente, colorata a mano con cromie che ricalcano le tinte originali.
“In Atlas Italiae – dice la Camporesi – uso una tecnica particolare che è la colorazione manuale delle immagini. Tutte le fotografie del progetto sono stampate in bianco e nero e colorate a mano, con un gesto-omaggio alle origini della fotografia. I luoghi che riprendo sono luoghi abbandonati, quindi privati della loro identità e del loro colore e colorarli a mano è un po’ come rianimarli, donar loro una nuova identità.”
Per la Camporesi lo scatto è il finale di un lungo percorso, un processo che nasce con una ricerca che viene sviluppata successivamente in varie direzioni.
“Lo scatto viene alla fine, quando il processo è giunto al termine e l’idea si è rivelata: la fotografia è lo strumento che serve a rendere visibile l’idea”.
Sembra, infatti, un percorso quello che ha portato l’artista ad Atlas Italiae. La ricerca geografica di Silvia Camporesi è iniziata già in Cartoline dal nulla nel 2004 ed in Indizi terrestri nel 2005, ma le finalità della ricerca e il soggetto sono completamente diversi. Nel 2004 c’è il ribaltamento del “senso di bellezza dell’immagine in funzione di paesaggi che non hanno chiare linee di appartenenza ad un luogo specifico”. Da luoghi anonimi con l’esplicita intenzione di fotografare lo spaesamento, nel 2005 la ricerca spaziotemporale è un’azione compiuta da figure che, attraverso carte reali o immaginarie, cercano punti di riferimento: Indizi terrestri è, infatti, un racconto in tre parti (Geografia/Secondo Viaggio/ Esercizi per il ritorno) dove il viaggio è ancora tutto umano e personale. Da luoghi senza alcuna identità a persone in cerca di identità, Silvia Camporesi ora ci conduce tra i luoghi che hanno un’identità fragile, presagio di un’umanità che sta perdendo se stessa.
In questa mostra non avremo il piacere di averla tra e nelle sue opere?
Da qualche anno la mia ricerca si concentra totalmente sul paesaggio e ho dunque abbandonato la figura umana, di conseguenza l’autoritratto. È come se la figura fosse uscita lentamente di scena, per lasciare spazio alle linee dell’orizzonte, agli elementi naturali. È un’esigenza che sto assecondando, ma credo che prima o poi sentirò di nuovo il bisogno di tornare alla figura umana.
In riferimento ai paesi visitati per Atlas Italiae, Lei ha dichiarato: “I luoghi abbandonati ti adottano”. Lei ha amato tutti quei paesi cristallizzati all’epoca del loro abbandono; è entrata nelle case e nelle stanze, spazi ancora umani, ma un’umanità come presenza evanescente che andava fermata: “mi sembra di entrare in un sogno, tanto è il senso di irrealtà e di sospensione che li pervade”. Il tempo e lo spazio sono umani e si vanno disumanizzando, quindi, in Atlas Italiae. Cosa l’ha spinta ad abbandonare la figura umana e a fotografare i luoghi che gli umani stessi hanno abbandonato, per poi intervenire sui quei luoghi artisticamente ed umanamente? C’è, quindi, una denuncia poetica ed artistica ad un’umanità che sta dimenticando se stessa ?
Atlas Italiae è una ricognizione dei paesi e dei luoghi abbandonati dell’Italia. Un lavoro promosso da 15 collezionisti che hanno creduto nel progetto e lo hanno finanziato. Per un anno ho viaggiato per tutte le regioni italiane, seguendo la traccia di luoghi abbandonati ma che ancora conservano le tracce di memoria delle persone che vi hanno vissuto. Un lavoro intenso, faticoso, un’esperienza unica, che mi ha permesso di visitare un’Italia sconosciuta, bellissima.
Da un po’ di tempo sono alla ricerca di una “visione di paesaggio”, qualcosa di fermo e di orizzontale che l’occhio scopre davanti a sé. Dopo alcuni lavori fortemente dedicati alla figura umana, ho ricevuto alcune committenze riguardanti il paesaggio e questo mi ha fatto riflettere su un modo nuovo di osservare la realtà e di lavorare. Nel paesaggio sono io che vado alla ricerca del punto di vista, del luogo, non metto in scena nulla come nei casi precedenti e tutto scorre ad una diversa velocità. Il primo lavoro lontano dalla figura umana era dedicato alla città di Venezia, luogo difficilissimo da fotografare, ma questa esperienza mi ha reso consapevole che potevo intraprendere una nuova strada, abbandonando la figura umana. Probabilmente l’esperienza veneziana mi ha fatto capire che sono più affascinata dai luoghi in cui la figura umana è praticamente assente, in cui posso avere un dominio – anche se parziale – dello spazio, così la mia decisione di approdare ai luoghi abbandonati.
La figura umana va scomparendo nelle opere della Camporesi o meglio, c’è, ma come qualcuno che c’era prima e che ha lasciato delle tracce fragili nello spazio e nel tempo. La fragilità dei paesi abbandonati è la stessa fragilità dell’umanità che non cura la sua memoria, e in queste immagini l’artista, intervenendo con delicate cromie, se ne prende cura amorevolmente con gesti accurati e lenti. Dedicare loro del tempo è custodire e rianimare l’identità storica.
Silvia Camporesi dedica artisticamente il suo tempo e ci invita a donare il nostro anche solo nello spazio e nel tempo di questa mostra.
In riferimento ad un altro dei suoi progetti: 2112:“Sono l’occhio esterno che visualizza la storia di Ulisse e ripercorre il perimetro dell’isola guardando il mare burrascoso che per anni gli impedisce di partire, ma svela poi l’inganno della visione: la fine del mondo è solo presunta e anche il mare in tempesta a breve si calmerà.”
Fabrizia Crispi
Vernissage le 01.04.2015 à 18.30
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