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Non vengono dal centro sperimentale del cinema di Roma, come molti hanno scritto. Scrivevano di cinema e avevano un sogno del cassetto. Hanno avuto la volontà di perseguire il proprio sogno e, come dicono, la fortuna di avere intorno persone in gamba, come il produttore Gianluca Arcopinto che ha creduto in loro. Insieme hanno realizzato ET IN TERRA PAX un film sulla solitudine. Matteo Botrugno e Daniele Coluccini dicono: “Se continuiamo a  dire che in Italia non si fa niente non serve. Facciamo”. La loro tenacia è stata premiata con 15 minuti di applausi alle Giornate degli Autori del 67° Festival del Cinema di Venezia 2011…..

Aspettando il responso di Villerupt. PassaParola li ha incontrati.

 

Daniele Coluccini& Matteo Botrugno


 

Et in terra pax. Perchè questo titolo?

Matteo: Frutto di una strana coincidenza. Avevo in mente di scrivere una storia ambientata nella periferia romana e mentre scrivevo mi lasciavo ispirare dalla musica di  Vivaldi e in particolare dal Gloria che comprende anche questo movimento Et in terra pax . Non avendo un titolo per il film ho pensato di proporre questo. E quando l’ho proposto a Daniele (Colucci, ndr) e ad Andrea Esposito, il co-sceneggiatore, abbiamo capito che era il titolo giusto che serviva a rafforzare il contrasto tra musica sacra, location metropolitana e storie piuttosto violente.

 

Perchè avete scelto di fare un film dove la periferia e un quartiere in particolare, il nuovo Corviale a Roma, diventano protagonisti?

Daniele: la storia in realtà parla di periferia che pero’ è una scusa per noi. Noi volevamo fare un film sulla solitudine. La periferia, per antonomasia, è qualcosa che sta intorno e d è come se non facesse parte della città ma in realtà ne fa parte integrante. E la periferia di Corviale, in particolare, è isolata, un posto in cui vivono 12 000 persone ma solo due strade ti ci portano. Quindi, una città isolata nella città. Tutti i nostri protagonisti guardano all’esterno come fossero degli spettatori della loro vita.

 

Per es. nella scena della panchina i protagonisti sono spettatori come al cinema che vedono gli altri dal loro punto di vista. In questo caso, il palazzo del Corviale è esso stesso un personaggio aggiunto, un po’ l’ombra del nostro rpotagonista che è li’ seduto fermo, immobile che aspetta qualcosa che non sa se arriverà mai. Come il palazzo del Corviale emblema della periferia e dell’isolamento. Tante persone che hanno visto questo film hanno riconosciuta, ognuno, la propria periferia. Ed è questa l’operazione che volevamo fare: rendere un posto universale, cosi come la tematica.

 

La periferia è stata protagonista di altri film in questo Festival. E’ una moda italiana?

Matteo: la periferia brulica di vita vera e non ci sono turisti né quei tratti specifici distinguibili nei centri cittadini. I centri, si sa, sono tutti diversi. Ma qualcuno ha detto che il palazzo del Corviale ricorda un po’ le vele di Scampia. Questo significa che è in periferia che ci sono molti problemi ed è qui che vivono persone che vengono spesso dimenticate un po’ perchè lo vogliono loro stesse, un po’ perchè si trovano in situazioni di disagio rispetto ad altri che vivono nei centri delle città. Abbiamo pensato che Roma non si poteva solo rappresentare attraverso i lucchetti di Ponte Milvio ma che c’era anche dell’altro.

 E’ vero che vi siete ispirati a  Pasolini?

Daniele: l’ispirazione diretta non c’è. A noi piace Pasolini a prescindere. Non solo come  cineasta ma anche come poeta e scrittore, quindi sicuramente un’influenza c’è stata. Pero’ accostando musica classica e periferie il parallelismo viene quasi naturale. Per esempio, noi lavoriamo molto sulla musica classica. Anche i corti ai quali abbiamo lavorato in passato sono foretmente impregnati di musica classica. La grande diversità tra Pasolini e il nostro tipo di cinema è….

Matteo: che innanzitutto Pasolini era un genio….!

Daniele: esatto e noi siamo due comuni mortali…..Ma la borgata è profondamente diversa. Quella che lui raccontava era la borgata dei piccoli criminali che rubavano per sopravvivere.

Matteo: adesso non si chiama neanche più borgata, sembra un termine dispregiativo che è quasi in disuso.

Daniele: i nostri personaggi, invece, rubano per assomigliare alle persone del cinema o al modello televisivo che Pasolini aveva profetizzato, che è la televisione che nelle sue idee avrebbe preso il sopravvento. Il modello artefatto che viene rappresentato anche dai nostri protagonisti.

 Acqua e fuoco ricorrono spesso nel film. Che simbolicità avete voluto esprimere?

Daniele: a noi piaceva fare un discorso ciclico abbiamo dato uno spunto iniziale che era il fuoco, purificatore, quasi divino con la musica di sottofondo. E poi, nel finale, abbiamo trovato questa location con l’acqua e abbiamo pensato di doverli mostrare entrambi. Acqua e fuoco elementi cosi distanti tra loro ma che chiudono il cerchio. Fuoco e musica aiutano a capire che non si parla solo di sociale ma che simboleggiando il sacrificio finale, quello del protagonista che è quasi inutile. Egli, infatti,  fa carico di qualcosa che non gli appartiene. Anche se agisce di persona dice ai suoi “compari” che se le cose non cambieranno niente cambierà. E il suo sacrificio sarà stato inutile se tutti non tenteranno di cambiare le cose. Il novello Cristo si carica dei peccati degli altri giovani per permettere loro una esistenza migliore in cui possano vivere a testa alta ed educare i propri figli alla legalità e al rispetto degli altri (Mangione).

 

Pa.Ca. (in collaborazione con Re.Ce.)

 

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