Intervista a Daniele Gaglianone, regista di Ruggine

 

 

 

 Tratto dall’ omonimo romanzo  di Stefano Massaron, il film è in concorso per gli Amilcar della Giuria giovane, del pubblico e dei distributori a Villerupt 2011.

 

Ti sei ispirato al libro “Ruggine” di Stefano Massaron? Com’è nata l’idea del film?

Si, ovviamente mi sono ispirato al romanzo di Massaron. La cosa che mi ha colpito del libro è stata innanzitutto l’ambientazione, perché la storia si svolge in una periferia di una città del nord alla fine degli anni ‘70 in Italia e l’ambientazione mi ha colpito. Mi sono sentito subito a casa perchè questa banda di ragazzini sui 10 anni, tutti nati da un’altra parte e che parlano tutti i loro dialetti meridionali, un miscuglio di lingue  è una cosa in cui mi sono riconosciuto che ho vissuto. Anche io sono nato ad Ancona da papà calabrese e mamma marchigiana. Quando mi sono trasferito a Torino, ricordo che tra i miei amici tutti provenivano da altre regioni d’Italia.

 

Il filo conduttore del film per alcuni non è la pedofilia ma la sofferenza. Tu hai parlato di potere. Cosa ci puoi dire in merito?

Il tema della pedofilia c’è  ma non è un film che racconta cos’è questa cosa e cosa dovrebbe essere. E’ un film sull’incontro con il male, sulla violenza, cosa vuol dire per diversi motivi scontrarsi con il male assoluto, con il potere. E cos’è per dei ragazzini di 10 nni il male assoluto? L’orco. In fondo è una storia abbastanza classica; che non ha niente di fiabesco o di magico ma è un film molto realistico con la struttura è quella di una favola. Oltre a questa storia, c’è un altro livello, che consente al film di avere due dimensioni: nel passato e nel presente. Cosa vuol dire vincere contro il male? Forse da come i tre protagonisti una volta cresciuti sentono ancora dentro di sé il peso di quella disavventura, di quell’incontro, forse, mi viene da dire che il male c’è sempre, anche quando perde. Nel senso che ha solo bisogno di manifestarsi mentre vincerlo puo’ voler dire, comunque, anche perdere nel senso che ti cambia la vita e tu non sarai più quello di prima.

Come hai affrontato il tema della non comunicabilità tra i bambini e gli adulti?

Il mondo degli adulti è molto lontano, molto marginale. La presenza degli adulti nel passato è sfocata forse, parla attraverso l’assenza. Per quel poco che si vedono, si intuisce che loro hanno un rapporto con questo dottore diverso da quello dei bambini. I  bambini nella loro ingenuità, nel loro essere naif, vedono qualcosa che forse gli adulti non vogliono vedere. Capita spesso, quando si ha di fronte il potere; quando si parla di potere capita spesso. Ci sono degli esempi illustri anche nel ‘900 di abdicazione totale dell’intelligenza da parte delle persone.

E’ difficile fare cinema in questo periodo in Italia?

E’ difficile fare qualsiasi cosa e quindi anche fare cinema. Io sono vent’anni che lo faccio:  il mio primo lungometraggio è del 2000-2001 e posso dire che io non ho mai avuto la vita facile. Si, è difficile, pero’ non mi stupisco più di tanto.

Hai girato molti documentari sulla Resistenza. Quanto hanno influito sul tuo modo di fare film?

Ho lavorato per l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino diretto da Paolo Gobetti, figlio di Piero. E’ stato un lavoro importante; un momento di maturazione importante che mi ha stimolato anche nei lavori cinematografici perchè il mio primo lavoro “I nostri anni” nel 2001 (con il  quale sono stato a Villerupt) nasce proprio con quel mondo li.

E’ curiosa questa cosa perchè quasi mai nessuno ti chiede il contrario, ovvero se il tuo modo di fare film di finzione influenzi il tuo modo di essere documentarista. Io sono uno di quelli che alla fine pensa che non ci sia dicotomia. Non sono la stessa cosa ma il rapporto puo’ sintetizzarsi su questa riflessione sui personaggi: nei film di finzione i personaggi, quando funzionano, diventano persone. Nei documentari le persone diventano personaggi.

Molte cose che ho fatto nei documentari derivano dai miei lavoro con attori. Nei documentari ho atteggiamento selvaggio, immediato, senza soprallughi molto improvvisato ….ma mi sono accorto che il mio modo di vedere le persone nel film di finzione, deriva dal rapporto con il personaggio e anche alcune modalità di linguaggio nei film derivano dall’esperienza diretta dei documentario.

 Perchè hai scelto le Luci della centrale elettrica per la colonna sonora?

A Vasco (Brondi, ndr) ho chiesto di scrivere canzone finale. E’ stato come un gioco tra di noi. Io avevo chiuso il film e c’era pochissimo tempo per farla. Lui pensava di non riuscirci ed io, in quel caso, avrei usato un’altra sua canzone. Infine, ha scritto questa canzone che non è solo titolo di coda che è parte integrante del film. Come vedrete.

Programmi per i futuro?

Cercare di ricaricare le batterie, dopo un periodo molto impegnativo dal punto di vista lavorativo.

 

Picci, rc

 

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