Ogni settimana una poetessa, un poeta, un profilo, una citazione sul suo intendere il modo di costruire le parole, la sua poesia.

Ardengo Soffici

Ardengo Soffici non merita il semplice appellativo di poeta, piuttosto di artista perché non fu solo poeta, ma anche pittore, saggista, scrittore. Per alcuni critici meriterebbe l’appellativo di “Apollinaire italiano”.

Nato a Rignano sull’Arno, – come un personaggio a dir poco sconcertante della recente politica italiana – nel 1879, figlio di agiati agricoltori, deve assistere anni dopo alla rovina finanziaria del padre. Essendo la famiglia già da tempo trasferita a Firenze, Soffici lavora per sopravvivere come impiegato in uno studio di avvocati, ma frequenta anche l’Accademia di Belle Arti dove erano maestri Giovanni Fattori e Telemaco Signorini. Qui vi stringe una durevole amicizia con il pittore emiliano Giuseppe Graziosi. Con lui ed altri pittori decide, dopo la morte del padre, di partire nel 1900 per Parigi. Qui conduce una vita da classico bohémien, traendo dalle sue illustrazioni alla rivista L’assiette au Beurre qualche magro guadagno. Ma intanto vi incontra artisti come Picasso, Derain, Braque, Matisse, Apollinaire, Max Jacob, quel Max Jacob   che doveva qualche anno dopo raggiungere la celebrità con il  romanzo mistico ”Martorel”. Rientrato in Italia nel 1911, si stabilisce presso la madre a Poggio a Caiano e si lega a Firenze a Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, divenendo uno dei più assidui collaboratori della rubrica delle arti nella rivista La Voce, da loro fondata nel 1908. Ma collabora anche con La Riviera ligure, rivista che i fratelli Mario e Angelo Silvio Novaro pubblicano ad Oneglia (Imperia) cui contribuisce un gruppo straordinario di scrittori, da Pascoli alla Deledda, da Marradi a Pirandello e Chiesa, sino agli allora meno noti Marino Moretti e Massimo Bontempelli. Dalle pagine della Voce divulga l’Impressionismo, Rimbaud e il Cubismo. Critico all’inizio del movimento futurista, lo stronca nel 1911 sulla Voce, provocando la reazione violenta di Marinetti, Russolo, Carrà, Boccioni con quest’ultimo venendo addirittura alle mani in un noto caffè, Le Giubbe Rosse, di Firenze. La riconciliazione con i futuristi avverrà qualche anno dopo, grazie alla mediazione di Aldo Palazzeschi. In seguito, allontanatosi da Prezzolini perché in disaccordo con la sua direzione della rivista, fonda nel 1913 con Giovanni Papini la rivista Lacerba che diventa l’organo ufficiale del Futurismo, anche se quasi subito il gruppo fiorentino entra in rottura con il movimento futurista milanese, accusato di “marinettismo, modernolatria e culto delle macchine”. Con Papini nel 1914 Soffici pubblica “L’almanacco purgativo”, intrattenendo un dialogo culturale con Cezanne e i Cubisti.

Partito volontario nella Prima Guerra mondiale, ufficiale più volte ferito sulla Bainsizza, scrive Kobilek-Giornale di battaglia (1918) e dopo Caporetto La ritirata del Friuli (1919).

Nel dopoguerra, ritiratosi a Poggio a Caiano, Soffici lascia i temi di avanguardia, ritorna ad un maggiore classicismo e politicamente aderisce al fascismo.

Firma nel 1925 il Manifesto degli intellettuali fascisti, si avvicina a Leo Longanesi e collabora con L’Italiano. Per la sua pittura riceve nel 1932 il Premio Mussolini dell’Accademia d’Italia. Divenuto nel 1939 accademico d’Italia per la classe delle Arti, aderisce dopo l’8 settembre alla Repubblica di Salò. Con Barna Occhini fonda nel 1944 la rivista Italia e Civiltà che propugna l’amor patrio, il carattere sociale del fascismo e la fedeltà alla Germania nazista. Arrestato, internato, processato ed infine assolto nel 1946 per insufficienza di prove, torna dal 1948 ad esporre a Firenze. Oltre alle numerose opere di critica d’arte da Cubismo e oltre sino a Selva, arte, la sua principale attività di scrittore è rappresentata negli ultimi anni da una lunga autobiografia in cui la ricchezza straordinaria della sua contradditoria esperienza artistica ed umana è rappresentata in quattro volumi: L’uva e la croce (1952), Paesi fra le rovine (1953), Il Salto vitale (1954), Fine di un mondo (1955). Si spegne nella sua Poggio a Caiano nel 1964. Oltre ai riconoscimenti ricevuti nel periodo fascista, Ardengo Soffici aveva ottenuto nel 1955 il premio Marzotto per la letteratura.

Loris Jacin

 “Ebbene: sarò categorico. E’ proprio questo che voglio; affermare col fatto ch’io non credo alla superiorità delle lunghe fatiche, dell’opere vaste e sublimi. Parlerò un giorno del mio disprezzo per la “grandezza”; oggi noterò che secondo me esistono due tipi di letteratura. Una, misurata, architettonica, esplicativa – didascalica in fin dei conti, elaborata ad uso di coloro che non san comprendere se non si dice tutto distesamente e con ordine, che non conoscono l’arte di legger tra le righe di uno scritto, – e degli spiriti lenti e degli imbecilli; l’altra riassuntiva, in iscorcio, sommaria, furbesca, per così dire, tutta fatta di cenni, di strizzatine d’occhio passando, di sorrisi sottili, e che solo gli amici, gli iniziati, i fratelli possono capire e gustare. La mia. Qualcuno scrisse che un intero poema poteva essere contratto in un’esclamazione. E’ il principio stesso che informa la mia maniera lirica. Questo per il metodo. In quanto al soggetto, non so cosa dire. Amo troppo la vita, per non apprezzarne devotamente anche le briciole ( le briciole?). Sono il malato della sfumatura, del lampo fugace, della quisquilia, importanti al mio occhio come l’intero universo che riassumono per la mia terribile sensibilità – come una gocciola d’acqua rispecchia i colori del sole-. Un volo dorato di mosca, un fiore nell’erba, un passo di notte, un motto di spirito, un sarcasmo sugli idoli più cari al nostro cuore, ecco delle cose gravissime per me, significatissime e drammatiche al più’ alto grado…

Portare ogni senso all’esasperazione, al parossismo, all’impressionabilità, ecco il fine delle arti prese nella loro purezza.

Il mondo percepito in un’allucinazione infiammata: penetrato, bevuto in tutto il suo essere concreto da ogni singolo senso.

( da Giornale di bordo)

                                                            Arcobaleno 

Inzuppa 7 pennelli nel tuo cuore di 36 anni finiti ieri 7 aprile
E rallumina il viso disfatto delle antiche stagioni.

Tu hai cavalcato la vita come le sirene nichelate dei caroselli da fiera
In giro,
Da una città all’altra di filosofia in delirio,
D’amore in passione di regalità in miseria:
Non c’è chiesa, cinematografo, redazione o taverna che tu non conosca;
Tu hai dormito nel letto d’ogni famiglia.

Ci sarebbe da fare un carnevale
Di tutti i dolori
Dimenticati con l’ombrello nei caffè d’Europa,
Partiti tra il fumo coi fazzoletti negli sleeping-cars diretti al
nord al sud
Paesi ore,

Ci sono delle voci che accompagnan pertutto come la luna e i cani;
Ma anche il fischio di una ciminiera
Che rimescola i colori del mattino
E dei sogni
Non si dimentica nè il profumo di certe notti affogate nelle
ascelle di topazio.

Queste fredde giunchiglie che ho sulla tavola accanto all’inchiostro
Eran dipinte sui muri della camera n.19 nell’Hotel
des Anglais a Rouen
Un treno passeggiava sul quai notturno
Sotto la nostra finestra
Decapitando i riflessi delle lanterne versicolori
Tra le botti del vino di Sicilia
E la Senna era un giardino di bandiere infiammate.

Non c’è più tempo:
Lo spazio
E’ un verme crepuscolare che si raggricchia in una goccia di fosforo
Ogni cosa è presente:
Come nel 1902 tu sei a Parigi in una soffitta,
Coperto da 35 centimetri quadri di cielo
Liquefatto nel vetro dell’abbaino;
La Ville t’offre ancora ogni mattina
Il bouquet fiorito dello Square de Cluny;
Dal boulevard Saint-Germain scoppiante di trams e d’autobus,
Arriva la sera a queste campagne la voce briaca della giornalaia
Di rue de la Harpe:
«Pari-curses», « l’Intransigeant» «La Presse».
Il negozio di Chaussures Raoul fa sempre concorrenza alle stelle:
E mi accarezzo le mani tutte intrise dei liquori del tramonto
Come quando pensavo al suicidio vicino alla casa di Rigoletto,

Si caro!
L’uomo più fortunato è colui che sa vivere nella contingenza al pari dei fiori;

Guarda il signore che passa
E accende il sigaro orgoglioso della sua forza virile
Ricuperata nelle quarte pagine dei quotidiani,
O quel soldato di cavalleria galoppante nell’indaco della caserma
Con una ciocchetta di lillà fra i denti.

L’eternità splende in un volo di mosca.
Metti l’uno accanto all’altro i colori dei tuoi occhi;
Disegna il tuo arco
La storia è fuggevole come un saluto alla stazione;
E l’automobile tricolore del sole batte sempre più invano
il suo record fra i vecchi macchinari del cosmo.

Tu ti ricordi insieme ad un bacio seminato nel buio,
Una vetrina di libraio tedesco Avenue de l’Opéra,
E la capra che brucava le ginestre
Sulle ruine della scala del palazzo di Dario a Persepoli.
Basta guardarsi intorno
E scriver come si sogna
Per rianimare il volto della nostra gioia.

Ricordo tutti i climi che si sono carezzati alla mia pelle d’amore,
Tutti i paesi e civiltà
Raggianti al mio desiderio:
Nevi,
Mari gialli,
Gongs,
Carovane;
Il carminio di Bomay e l’oro bruciato dell’Iran
Ne porto un geroglifico sull’ala nera.
Anima girasole il fenomeno converge in questo centro di danza;
Ma il canto più bello è ancora quello dei sensi nudi.

Silenzio musica meridiana,
Qui e nel mondo poesia circolare
L’oggi si sposa col sempre
Nel diadema dell’iride che s’alza.
Siedo alla mia tavola e fumo e guardo:
Ecco una foglia giovane che trilla nel verziere di faccia,
I bianchi colombi volteggiano per l’aria come lettere d’amore buttate dalla finestra:

Conosco il simbolo la cifra il legame
Elettrico,
La simpatia delle cose lontane;
Ma ci vorrebbero della frutta delle luci e delle moltitudini
Per tendere il festone miracolo di questa pasqua.
Il giorno si sprofonda nella conca scarlatta dell’estate;
E non ci son più parole
Per il ponte di fuoco e di gemme.

Giovinezza tu passerai come tutto finisce al teatro,
Tant pis! Mi farò allora un vestito favoloso di vecchie affiches.


(da Marsia e Apollo)

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