Ogni settimana una poetessa, un poeta, un profilo, una citazione sul suo intendere il modo di costruire le parole, la sua poesia.

Filippo Tommaso Marinetti

Marinetti nasce nel 1876 ad Alessandria d’Egitto da un avvocato civilista originario di Voghera e da Amalia Grolli, una madre che avrà nella sua vita una importanza fondamentale perché sin dall’infanzia lo incoraggerà a praticare l’arte della poesia. Il suo amore per la letteratura si manifesta sin dai primi anni del collegio. A 17 anni fonda la rivista Papyrus. Si diploma a Parigi – le sue prime poesie sono pubblicate in francese – e poi si laurea in legge a Genova dopo studi a Pavia. Ma dopo il trauma della morte prematura del fratello Matteo si allontana definitivamente dalle pandette e decide di assecondare la sua vocazione letteraria, in questo seguendo l’influenza avuta dalla madre che si spegnerà nel 1922. I primi versi in francese sono notati a Parigi. Si tratta di versi liberi di stampo liberty influenzati da Stéphane Mallarmé e da Gabriele d’Annunzio, poeta con cui Marinetti avrà un rapporto ambivalente, distanziandosi da lui per un diverso rapporto con l’orrido e il grottesco.

Tra il 1905 e il 1909 dirige e promuove la rivista milanese Poesia, lanciata insieme a Sem Benelli e Vitaliano Ponti. L’anno fondamentale del poeta è però il 1908. Amante della velocità esce di strada con la sua Isotta Fraschini. Ripescato in un fossato, trasfigura l’episodio nel suo Manifesto del Futurismo. Si sente un uomo nuovo, capace di chiudere i conti con il passato, col decadentismo e lo stile liberty e “distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie” e “cantare le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa, glorificare la guerra – la sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna, della sua “femminilità metallica”. Programma iconoclasta, rivoluzionario, maschilista. Il suo Manifesto trova spazio nella stampa italiana con la Gazzetta dell’Emilia che lo pubblica per prima il 5 febbraio 1909, ma viene anche ripreso in Francia dal Figaro. Dopo la pubblicazione del Manifesto inizia una produzione letteraria delle prime opere “futuriste” che incontrano all’inizio scarso successo, sia i due primi drammi “Le roi Bombance” e “La donna è mobile” (poupées électriques) in cui fa muovere dei robot precedendo di dieci anni Karel Capek, inventore del termine. Ma anche il suo primo romanzo “Mafarka il futurista” è discusso e viene difficilmente esonerato dall’accusa di oltraggio al pudore. Comunque il suo movimento incontra quasi inaspettatamente l’adesione di numerosi pittori e poeti, da Boccioni a Carrà, da Russolo a Palazzeschi. Dopo il lancio delle serate futuriste, Marinetti lancia nel 1910 il Manifesto “Contro Venezia passatista” dal campanile di S. Marco dove si propone “di colmare i piccoli canali male odoranti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi”, per preparare la nascita di una nuova Venezia industriale e militare in grando di “dominare il grande lago italiano, l’Adriatico”.

Quando la destra italiana al governo, frustrata per la presa del controllo della Tunisia da parte della Francia, lancia nel 1911 la guerra di Libia contro l’Impero ottomano, Marinetti è il solo futurista a perorare la causa della guerra. Dopo una tardiva autorizzazione ricevuta dal Primo Ministro Giovanni Giolitti, Marinetti sbarca in terra libica come giornalista. Testimone della difficile conquista di quello che più che la “quarta sponda” era per la sinistra italiana “uno scatolone di sabbia”, Marinetti torna in patria per scrivere “La battaglia di Tripoli”, stampata in 38.000 copie, che gli porterà il successo. Ma, insoddisfatto degli sforzi di rinnovamento del linguaggio poetico tentati sino ad allora, va oltre, con un nuovo manifesto predica “le parole in libertà”, il superamento della sintassi tradizionale, una nuova tecnica espressiva che abolisce la punteggiatura e ricorre a nuovi artifici verbo-visivi. Non tutti lo seguono. Disorientati, Govoni e Palazzeschi lasciano il movimento che comunque continua ad avere il tiepido sostegno della rivista fiorentina Lacerba di Papini e Soffici. Marinetti compone in questo modo Zang Tumb Tumb sulla guerra turco-bulgara e si incontra nel 1914 a Mosca e Sanpietroburgo con i futuristi russi che però non lo prenderanno troppo sul serio. Decisamente interventista alla vigilia della Prima Guerra mondiale, si porta volontario negli Alpini e durante una convalescenza pubblica scrive un manualetto destinato ad avere grande fortuna,“Come si seducono le donne”. Ritornato sul fronte, parteciperà alla trionfale avanzata su Vittorio Veneto a bordo di una autoblindo iZ, esperienza che narrerà nel romanzo “L’alcova d’acciaio”.

Reduce di guerra decorato al valore, ritiene la vittoria italiana “mutilata”, partecipa all’impresa fiumana con D’Annunzio ma in seguito se ne allontana. Sul piano politico decide la creazione del Partito Politico Futurista che programma “lo svaticanamento dell’Italia” e il passaggio alla repubblica. Si avvicina a Mussolini con cui partecipa il 23 marzo 1919 all’adunata di piazza San Sepolcro a Milano e fa confluire il PPF nei Fasci di combattimento. In seguito è protagonista di scontri a Milano con anarchici e socialisti e dell’assalto alla sede del quotidiano socialista “L’Avanti!”. Detenuto con Mussolini per la detenzione illegale di armi da fuoco, dopo la sconfitta elettorale nel novembre 1919. resterà in prigione molto più a lungo di Mussolini, subito liberato. Da lui si distacca perché il futurismo predica la repubblica, mente il fascismo decide di avvicinarsi al regime monarchico per la conquista del potere.

Ritornato alla letteratura dopo l’esperienza politica Marinetti pubblica alcune opere di successo (Gli indomabili, Il tamburo di fuoco) e insieme alla nuova compagna, Benedetta Cappa, scrittrice e pittrice, inventa una nuovo forma d’arte, il Tattilismo, evoluzione multi-settoriale del futurismo,  che con scarso successo tenta di propagare in Francia dove però non è più accolto come “la caffeina d’Europa” da ambienti che, ormai, hanno sposato il dadaismo. 

Deluso dalla tiepida accoglienza parigina si riavvicina al fascismo e a Mussolini che lo riempie di onori. Firma nel 1925 il Manifesto degli intellettuali fascisti e da Accademico nell’Accademia d’Italia voluta da Mussolini, dal 1929 si adopera nel ruolo nuovo di difensore della letteratura e della lingua italiana contro l’esterofilia dilagante, frutto della penetrazione anglosassone. Si adopera a trasformare il futurismo in una vera e propria scuola poetica di cui resta sempre il rappresentante più interessante con opere come Il fascino d’Egitto o Il suggeritore nudo. La sua partecipazione al futurismo resta sempre propulsiva, ricca di iniziative che la sua posizione di accademico consente di condurre con seguito ed efficacia.

Firma nel 1929 il Manifesto dell’aeropittura futurista, dopo una esperienza di volo sul Golfo della Spezia, nel 1930 organizza con Tato il primo concorso fotografico nazionale, nel 1930-31 propone il Manifesto della fotografia futurista, nel 1932 il Premio di pittura Golfo di La Spezia, nel 1934 il Manifesto dell’Architettura   e presiede a Genova la prima Mostra nazionale di plastica murale per l’edilizia fascista.

Da Accademico, non risparmia nel 1938 le critiche al regime in materia di leggi razziali e di riavvicinamento dell’Italia alla Germania dopo l’Anschluss, il cui leader aveva definito il futurismo come “arte degenerata”.

Dimostrando un’ammirevole coerenza, Marinetti partecipa volontario alla guerra d’Etiopia (1936) e, a ben sessantasei anni di età, alla tragica spedizione di Russia.

Ritornerà dal fronte stanco e malato, ma non mancherà di pubblicare un memoriale “la grande Milano tradizionale e futurista” e di aderire alla Repubblica Sociale Italiana in cui vede il ritorno degli ideali repubblicani del 1919 che gli sono propri.

Morirà d’improvviso sul lago di Como, in un hotel di Bellagio, il 2 dicembre 1944, alla fine di una vita intellettualmente e fisicamente “caffeinica”, come avrebbe potuto scrivere lui stesso. Avrà diritto ad un solenne funerale di Stato celebrato il 5 dicembre nella chiesa di San Sepolcro a Milano, con una grande partecipazione della cittadinanza, sensibile ai suoi versi:” Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro…”

Loris Jacin

IL MANIFESTO DEL FUTURISMO (1909)

”Uccidiamo il chiaro di luna !”

  1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
  2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
  3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
  4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
  5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
  6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
  7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
  8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!.. Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
  9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
  10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
  11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aereoplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

È dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il « Futurismo », perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagl’innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli.

Musei: cimiteri!… Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei: dormitorî pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidando si (sic) ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese!

Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti…. velo concedo. Che una volta all’anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo…. Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine. Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire?

E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa contorsione dell’artista, che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere opposte al desiderio di esprimere interamente il suo sogno?… Ammirare un quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria, invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione.

Volete dunque sprecare tutte le vostre forze migliori, in questa eterna ed inutile ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti?

In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di slanci troncati!…) è, per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, per gl’infermi, pei prigionieri, sia pure: — l’ammirabile passato è forse un balsamo ai loro mali, poichè per essi l’avvenire è sbarrato…. Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi, giovani e forti futuristi!

E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!… Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!… Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!… Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!… Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate!

I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili. — Noi lo desideriamo!

Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche.

Ma noi non saremo là…. Essi ci troveranno alfine — una notte d’inverno — in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia monotona, e ci vedranno accoccolati accanto ai nostri aeroplani trepidanti e nell’atto di scaldarci le mani al fuocherello meschino che daranno i nostri libri d’oggi fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini.

Essi tumultueranno intorno a noi, ansando per angoscia e per dispetto, e tutti, esasperati dal nostro superbo, instancabile ardire, si avventeranno per ucciderci, spinti da un’odio tanto più implacabile inquantochè i loro cuori saranno ebbri di amore e di ammirazione per noi.

La forte e sana Ingiustizia scoppierà radiosa nei loro occhi. — L’arte, infatti, non può essere che violenza, crudeltà ed ingiustizia.

I più anziani fra noi hanno trent’anni: eppure, noi abbiamo già sperperati tesori, mille tesori di forza, di amore, d’audacia, d’astuzia e di rude volontà; li abbiamo gettati via impazientemente, in furia, senza contare, senza mai esitare, senza riposarci mai, a perdifiato…. Guardateci! Non siamo ancora spossati! I nostri cuori non sentono alcuna stanchezza, poichè sono nutriti di fuoco, di odio e di velocità!… Ve ne stupite?… È logico, poichè voi non vi ricordate nemmeno di aver vissuto! Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!

Ci opponete delle obiezioni?… Basta! Basta! Le conosciamo…. Abbiamo capito!… La nostra bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri. — Forse!… Sia pure!…. Ma che importa? Non vogliamo intendere!… Guai a chi ci ripeterà queste parole infami!..

Alzate la testa!…

Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!…»

(Filippo Tommaso MarinettiManifesto del Futurismo, poi pubblicato in lingua francese sul quotidiano Le Figaro il 20 febbraio 1909, con titolo Manifeste du Futurisme.)

ALL’AUTOMOBILE DA CORSA 

Veemente dio d’una razza d’acciaio,
Automobile ebbrrra di spazio,
che scalpiti e frrremi d’angoscia
rodendo il morso con striduli denti…
Formidabile mostro giapponese,
dagli occhi di fucina,
nutrito di fiamma
e d’olî minerali,
avido d’orizzonti e di prede siderali…
Io scateno il tuo cuore che tonfa diabolicamente,
scateno i tuoi giganteschi pneumatici,
per la danza che tu sai danzare
via per le bianche strade di tutto il mondo!…


Allento finalmente
le tue metalliche redini,
e tu con voluttà ti slanci
nell’Infinito liberatore!
All’abbaiare della tua grande voce
ecco il sol che tramonta inseguirti veloce

accelerando il suo sanguinolento
palpito, all’orizzonte…
Guarda, come galoppa, in fondo ai boschi, laggiù!…
Che importa, mio dèmone bello?
Io sono in tua balìa!… Prrrendimi!… Prrrendimi!…


Sulla terra assordata, benché tutta vibri
d’echi loquaci;
sotto il cielo accecato, benché folto di stelle,
io vado esasperando la mia febbre
ed il mio desiderio,
scudisciandoli a gran colpi di spada.


E a quando a quando alzo il capo
per sentirmi sul collo
in soffice stretta le braccia
folli del vento, vellutate e freschissime…

Sono tue quelle braccia ammalianti e lontane
che mi attirano, e il vento
non è che il tuo alito d’abisso,
o Infinito senza fondo che con gioia m’assorbi!…

Ah! ah! vedo a un tratto mulini
neri, dinoccolati,
che sembran correr su l’ali
di tela vertebrata
come su gambe prolisse…

Ora le montagne già stanno per gettare
sulla mia fuga mantelli di sonnolenta frescura,
là, a quella svolta bieca.
Montagne! Mammut in mostruosa mandra,
che pesanti trottate, inarcando
le vostre immense groppe,
eccovi superate, eccovi avvolte
dalla grigia matassa delle nebbie!…
E odo il vago echeggiante rumore
che sulle strade stampano
i favolosi stivali da sette leghe
dei vostri piedi colossali…

O montagne dai freschi mantelli turchini!…
O bei fiumi che respirate
beatamente al chiaro di luna!
O tenebrose pianure!… Io vi sorpasso a galoppo!…
Su questo mio mostro impazzito!…
Stelle! mie stelle! l’udite
il precipitar dei suoi passi?..

.
Udite voi la sua voce, cui la collera spacca…
la sua voce scoppiante, che abbaia, che abbaia…
e il tuonar de’ suoi ferrei polmoni
crrrrollanti a prrrrecipizio
interrrrrminabilmente?…
Accetto la sfida, o mie stelle!…
Più presto!… Ancora più presto!…
E senza posa, né riposo!…

Molla i freni! Non puoi?
Schiàntali, dunque,
che il polso del motore centuplichi i suoi slanci!

Urrrrà! Non più contatti con questa terra immonda!
Io me ne stacco alfine, ed agilmente volo
sull’inebriante fiume degli astri
che si gonfia in piena nel gran letto celeste!

(Da Lussuria -Velocità)

CAMMINO ASTRALE

Si andava a cento chilometri l’ora.

La sera avanzava a miliardi di miglia il minuto.

Tutte le globaglie del piombo fuso erano in cielo.

I monti rizzavano falesie d’antracite.

Il lago era un bacino prolisso d’inchiostro di seppia.

Le prime vite dei lumi lucciolavano per le costiere.

Si andava, si andava come entro un’acqua forte

velati dai tratteggi fittissimi della penombra

le nari ebbre d’un effluvio di ragia pluviosa.

Il paesaggio sonava nell’ansito folle della macchina.

Cantava il mio cuore un’ode al motore, inenarrabile.

Dietro, le signore felici chioccolavano come le fonti.

Il profumo de’ lor veli fuggiva coi morsi del turbine.

D’un tratto, i fanali s’accesero.

Spazzammo., cometa mostruosa caudata di petto,

la via, gli abissi di pietra e d’acqua e d’aria,

col prisma satanico dei riflettori.

La pioggia croscio’ tempestando diamanti:

L’eretta coperta parve un ciel buio sotto il cielo buio.

Gli occhi delle signore  sprizzaron scintille sul fondo.

Ed ebbimo, nell’orbita libera luminosa,

la grande vertigine a vortici

dell’anime strane ch’esistono

in fuoco ai sistemi cosmici sospesi.

Piu’ tardi, l’ossa imbevute

Del metafisico liquido asteroidale,

divino – nell’intima pace di un ciborio d’anime –

scaldar e tibie e sogni

(Da Versi liberi)

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