Ogni anno a Dillingen (Germania) il Foerderverein Dillingen Sutera e.V. organizza la festa dell’amicizia italo-tedesca, con un programma di eventi, religiosi e non, mirati a sottolineare differenze e similitudini di queste due realtà culturali. Quest’anno la festa si è tenuta lo scorso 22 settembre. Ospite d’onore è stato Alan Sorrenti, che ha interpretato alcuni dei suoi cavalli di battaglia, entusiasmando il pubblico. Ecco cosa ci ha raccontato sugli inizi della sua carriera.
Oltre 40 anni di carriera musicale. Come hai iniziato?
Uno si avvicina alla musica in maniera imprevedibile. Io credo che ci fosse, in qualche modo, già nel mio DNA, perché anche mio padre cantava. Inoltre ho avuto modo di vivere degli anni importanti dal punto di vista musicale, in quanto era un periodo in cui la musica cambiava e, specialmente in Inghilterra e negli Stati Uniti veniva associata ad un’ideologia. In Italia io ho fatto parte di questo movimento di evoluzione della musica che, oggi, viene definito progressive music. Erano i cosiddetti anni di piombo che, con le guerriglie armate, causavano diversi momenti di tensione. C’era chi preferiva rifugiarsi in altri ambiti, come l’India, inseguendo il sogno e la necessità di pacifismo e realizzazione del proprio io, e chi, come me, osservava la situazione e cercava di renderla catarsi attraverso la composizione di alcuni brani. Nacque così, per me, Vorrei incontrarti, una canzone che ancora amo molto perché descriveva la situazione del tempo, fermando quel momento e la sua importanza. Personalmente sono convinto che fu proprio questa canzone a dare l’incipit per gli altri brani a seguire.
Che influenza hanno avuto i viaggi sulla tua musica?
Il mio quarto album è stato il frutto di un viaggio che feci in Africa. Stavo studiando etnomusicologia al DAMS di Bologna e sentì la necessità di recarmi in Africa a studiare i ritmi tribali, raccoglierne una selezione e portarli al DAMS. Alla fine, il viaggio mi diede molto più di quanto mi fossi aspettato, perché mi fece scoprire il vero senso del ritmo. Mi sono recato in paesini veramente sperduti della giungla e in alcuni, i nativi, organizzarono per me quasi un vero e proprio festival. Questo mi permise di effettuare veramente delle belle registrazioni e, soprattutto a sentire e comprendere l’importanza del ritmo che, dal mio punto di vista, mancava nei primi album. Questi erano, musicalmente parlando, pieni di armonia, ma, forse, non rispondevano ancora alla mia esigenza ritmica.
Il risultato del viaggio in Africa quale è stato?
Appena rientrato in Italia prima ho scritto un brano in napoletano Sienteme e poi, d’accordo con il mio produttore, ho deciso di trasferirmi negli Stati Uniti, alla ricerca del ritmo, per così dire. Così il quarto album venne alla luce con un pezzo in napoletano e tutto il resto in inglese. A Los Angeles incontrai Jay Graydon che aveva finito, da poco, l’album di Al Jarreau, e attorno a cui giravano una miriade di musicisti, come il cantante dei Toto. Per lui l’Europa rappresentava quello che per me rappresentavano gli Stati Uniti, per cui c’era interesse, anche da parte sua di iniziare questa collaborazione che durò per tre album, visto che io rimasi a Los Angeles per ben 4 anni.
Elisa Cutullè