Che senso ha parlare di letteratura al tempo della globalizzazione?
E a che serve scrivere in italiano in un mondo sempre più anglofono?
Che fanno scrittori ed editori in un paese, l’Italia, che legge sempre meno?
A queste domande ha tentato di rispondere il convegno “Proposte per il nostro millennio: La letteratura italiana tra postmodernismo e globalizzazione”, organizzato il 19 e il 20 marzo 2015 dal Dipartimento di Lingua e Letteratura Italiana dell’Università di Istanbul, in collaborazione con l’Istituto italiano di cultura.
Impressionante il numero dei relatori, docenti e ricercatori rappresentativi di almeno quattro continenti, a testimoniare della vitalità della nostra lingua e dell’interesse che suscita negli angoli più impensabili del pianeta.
La globalizzazione quale portato del capitalismo neoliberista e rapace, e il postmodernismo quale fuga dal disagio e dall’omologazione verso utopie e relative antiutopie, hanno trovato in Italia poche voci di dissenso, quasi che il Paese non si fosse mai abituato a vivere la sua dimensione di nazione, transitando placidamente dal dominio straniero alla creolizzazione planetaria.
Se ospite d’onore è stato il giovane scrittore bolognese Enrico Brizzi, già tradotto in turco, il convitato di pietra, cui hanno fatto riferimento numerosi relatori è stato senza dubbio Antonio Tabucchi, scrittore globalizzante par excellence, dato che i suoi libri sono stati pubblicati immediatamente in numerosi paesi, ambientati in varie località con personaggi di nazionalità e lingue diverse, e focalizzati su problemi che interessano tutti gli abitanti del nostro globo.
Ma vi è di più. Tabucchi è stato maestro dell’immagine. Molte pagine dei suoi romanzi e racconti nascono dalla suggestione di una esperienza visiva e si prestano pertanto perfettamente alla trasposizione cinematografica. Ecco ancora un punto abbondantemente evocato. La letteratura come anticamera della cinematografia, la scrittura banalizzata che strizza l’occhio al traduttore di quante più lingue possibili, come testimoniano i romanzi di Umberto Eco che escono ormai contemporaneamente in 70 lingue diverse.
Dagli scrittori planetari agli scrittori del territorio e di una nuova prosa percettiva e “cartografica” caratteristica degli anni Zero. Gli scrittori della rappresentazione dei non luoghi italiani: l’individuo non sa chi è veramente ma sa di fronte a chi o contro chi si trova. Si parte per tornare e ripartire. Poi le “rimembranze” formano le frasi, queste ultime si inseguono e così nascono i libri di viaggio, come il Danubio di Claudio Magris, che più che un libro di viaggio, è un trattato-viandante sulle civiltà di confine. E sulla sua scia tanti altri libri come quel Giùnapoli di Silvio Perrella.
Poi, come si diceva prima, il complesso dialogo tra cinema e letteratura, sull’esempio del film tratto dal romanzo Novecento di Alessandro Baricco, che apre la delicata questione sulla rappresentazione di una stessa narrazione attraverso diversi media.
E, infine, una inattesa novità: la presenza di scrittori stranieri che scrivono in italiano è in costante aumento. Si tratta di una nuova corrente letteraria che fa parte, a tutti gli effetti, della letteratura italiana benché sia stata canonizzata solo in rare occasioni nelle antologie scolastiche. Tra i casi più fortunati: Educazione siberiana di Nicolai Lilin, Rosso Istanbul di Ferzan Ozpetek e Vita migliore di Nikola Savic. Tre scrittori, russo, turco e serbo, che trasferitisi in Italia hanno deciso di scrivere nella lingua del paese adottivo: l’italiano. E, dunque, le domande: si può parlare di una nuova corrente di scrittori stranieri in lingua italiana?
Esiste una letteratura migrante in lingua italiana?
Che contributo alla lingua e alla letteratura italiana offrono questi tre casi letterari?
E dagli stranieri in Italia agli italiani all’estero, un nuovo filone letterario che ha animato il dibattito storiografico del dopoguerra, quello sul passato coloniale italiano dimenticato e rimosso, al quale, in letteratura, sembra calzare il genere del giallo, in cui si distinguono Davide Longo (Una mattina a Irgalem), Luciano Marrocu (Debrà Libanòs, 2002) e Giorgio Ballario (La trilogia del maggiore Aldo Morosini) senza dimenticare Carlo Lucarelli (L’ottava vibrazione, 2008) e Roberto Costantini (La trilogia del commissario Balestreri). Fa eccezione Erminia Dell’Oro, i cui libri si inseriscono piuttosto nel filone della letteratura di testimonianza postcoloniale senza indorature.
E, per finire, uno sguardo all’indietro, quasi un ricordo affettuoso di quegli scrittori che abbiamo amato negli anni recenti, dall’ultimo Pierpaolo Pasolini di Petrolio, il grande romanzo incompiuto degli Anni ‘70, alle “intensità intime” di Pier Vittorio Tondelli, alla struggente poesia di Ada Merini sempre in bilico tra preghiera e pazzia.
Insomma, la letteratura italiana è ancora produttiva, capace di sorprendere e incuriosire il mondo, come dimostrano le elevate tirature di uno scrittore che non può che essere italiano: Andrea Camilleri.
Nicolò Bucaria