Al secondo posto ieri in duetto con Topo Gigio e sempre nella top five delle serate, è la vera rivelazione del Festival di Sanremo
Lucio Corsi fonde rock, poesia e immaginario cinematografico. Musicalmente, Volevo essere un duro, richiama il rock anni ’70, con chitarre graffianti e un ritmo incalzante, ma con un tocco onirico tipico del suo stile, con un’energia travolgente che richiama i grandi film d’azione. L’artista toscano – che accenna sempre al suo legame con la Maremma – riesce a mescolare suoni vintage e atmosfere fiabesche, creando un contrasto affascinante tra il desiderio di durezza e la sua poetica delicata.
La sua musica è la rivincita degli esseri gentili, di chi ha un universo tutto suo, fatto di poesia, leggerezza e visioni fuori dal tempo. La sua musica è la celebrazione di chi sceglie di rimanere autentico in un mondo che premia, spesso, apparenza e durezza.
Il testo – uno dei più belli di questo Festival – gioca sul desiderio di essere un duro, un personaggio alla Clint Eastwood o alla James Dean, ma lo fa con autoironia. Racconta la tensione tra l’immagine del ribelle e la sua natura più sognante e romantica. Il protagonista della canzone vorrebbe essere un eroe, ma alla fine emerge la consapevolezza che la vera forza sta nell’essere se stessi. Come per molte delle sue canzoni, Volevo essere un duro ha un’estetica cinematografica. E’ un esempio perfetto della sua capacità di raccontare storie attraverso parole e suoni, immagini reali e fantastiche.
Voleva essere un duro, un robot senza tremori, un re di Porta Portese, un outsider senza paure. Ma non è nato con la faccia da duro, ha anche paura del buio e se fa a botte le prende. E allora il duro lascia il posto semplicemente a se stesso, cintura bianca di judo, medaglia d’oro di sputo, invece che una stella uno starnuto. Perché l’esistenza non si misura nei trionfi, ma nelle cadute: giù dagli alberi, giù nei vuoti dell’essere, dove chi si sente normale spesso ha troppo poco amore intorno o troppo sole negli occhiali.
Proprio quei girasoli con gli occhiali gli hanno sussurrato di stare attento alla luce, perché è lì, tra il lampo e l’ombra, tra il buio e la luce, dentro tutti i contrasti, che si nascondono le verità. E lui, viaggiatore senza meta che si muove nel confine sfumato tra cielo e mare, lo sa. Sa che le lune troppo lisce sono solo fregature. E allora resta. Perché la magia sta proprio nel restare, nel lasciare che il mondo si sveli poco a poco, senza fretta. Un invito a perdersi, perché perdersi è un atto di coraggio. Eppure è proprio in questo smarrimento che si aprono nuove strade, nuovi mondi, nuove possibilità. E’ un invito a fidarsi del cammino, a lasciarsi attraversare dalle esperienze, a non aver paura di cambiare. Per poi, forse, un giorno ritrovarsi. Non è nessuno Lucio, ma alla fine, non è altro che luce. Non è altro che Lucio.
Gilda Luzzi